VISI D'ARTE. Salvador Dalí – Il volto come visione onirica.
- carlabelloni

- 4 mag
- Tempo di lettura: 19 min
Aggiornamento: 12 lug

Nel mondo di Salvador Dalí, il volto non è mai solo un volto.
È una superficie trasformabile, un luogo dove il reale si scioglie, i confini si spostano, la logica si disintegra.
Con Dalí si apre una possibilità nuova per chi lavora con l’immagine e il trucco: quella di leggere il volto non come una struttura ma come uno spazio da immaginare.
E la rubrica Visi d’Arte nasce proprio per questo: per coltivare, attraverso l’arte, uno sguardo più consapevole e profondo nella creazione del make-up.
Non per copiare, ma per interpretare.
Dalí e il Surrealismo: contesto e visione

Nato l'11 maggio 1904 a Figueres, in Catalogna, Salvador Dalí attraversa il Novecento come un visionario, lasciando un’impronta radicale non solo nell’arte, ma nella cultura visiva contemporanea. Muore all'età di 84 anni, il 23 gennaio 1989. Conosciuto per il suo approccio narcisistico, ironico ed eccentrico, Dalí diventa una delle icone indiscusse del Surrealismo, movimento nato negli anni Venti, che cercava di liberare l’immaginazione dalle regole della logica, della morale e del controllo razionale. Il Surrealismo, ispirato dalla psicoanalisi freudiana, esplora sogno, inconscio, automatismo e desiderio. Dalí vi aderisce nel 1929, portando però con sé un’impronta personale molto forte, tanto da essere espulso ufficialmente dal gruppo pochi anni dopo. Ma è proprio questa attitudine individualista, spettacolare, provocatoria, perfino teatrale a renderlo eterno. Inventore del metodo paranoico-critico, Dalí costruisce scenari impossibili con precisione quasi fotografica. L’arte diventa un procedimento mentale, in cui realtà e immaginazione si confondono fino a creare illusioni visive destabilizzanti. Il suo genio non si limita alla pittura: collabora con Luis Buñuel nei film Un Chien Andalou (1929) e L’âge d’or (1930), sperimentazioni cinematografiche che rifiutano la narrazione logica. Nel primo, in particolare, l’immaginario surreale è spinto all’estremo: la famosa scena del rasoio che taglia un occhio umano è diventata emblema del desiderio surrealista di colpire la percezione visiva e scardinare la realtà. La creatività di Dalí invade ogni ambito: progetta il celebre Telefono aragosta (1936), il Divano-labbra di Mae West (1937), scenografie teatrali, campagne pubblicitarie, e trasforma se stesso in un’opera vivente. I suoi baffi, le pose, gli abiti sono parte integrante di un'espressione artistica totale, dove ogni gesto è messa in scena. Dalí trasforma tutto in linguaggio: i sogni, i traumi, il desiderio sessuale, la religione, la morte. Ogni immagine è un simbolo, e ogni simbolo è una maschera che può essere indossata, anche sul volto. Nel suo universo, un occhio può diventare una serratura (Un Chien Andalou), una bocca può essere un sipario (Mae West room), e il volto stesso può liquefarsi, come accade nella figura distesa de La persistenza della meomoria. Il make-up creativo, da questo punto di vista, può smettere di inseguire la somiglianza per abbracciare l’interpretazione. L’anatomia non è un vincolo, ma una possibilità narrativa.
Perché studiare Dalí oggi
Studiare Dalí non serve a “replicarlo”. Serve ad imparare a pensare con le immagini, a progettare con una logica interna, a leggere ciò che si vede.
In un’epoca in cui il trucco rischia di diventare puro esercizio visivo da social, recuperare la cultura dell’arte significa ridare senso e profondità al gesto creativo.
Dalí ci insegna che il volto è anche paesaggio interiore, scena teatrale, costruzione concettuale.
E chi lavora sui volti, con pennelli, pigmenti, luce, può raccogliere questa lezione, trasformandola in segno.
Interpretare, non imitare
Dalí dipinge con una tecnica iperrealista: superfici lucide, tratti finissimi, controllo assoluto del dettaglio.
Ma ciò che rappresenta è tutt’altro che realistico: orologi molli, elefanti su zampe di insetto, volti svuotati o trasformati in paesaggi.
È un’arte che mette in crisi la percezione.
Per chi crea immagini attraverso il trucco, Dalí offre una miniera.
Realizzare un make-up ispirato a Salvador Dalí non significa trasporre su un volto i dettagli di un dipinto, né replicarne i colori o le forme come fossero un pattern decorativo.
Dalí non chiede imitazione: chiede metamorfosi.
L’universo surrealista, e in particolare quello daliniano, non si presta a una lettura estetizzante. È fatto di visioni, di presagi, di tensioni sospese tra attrazione e inquietudine. Ogni immagine genera una narrazione che scardina l’apparenza e penetra nell’immaginario. Ed è proprio qui che il make-up trova la sua evoluzione: smette di essere ornamento per diventare dispositivo simbolico, materia in trasformazione, superficie percettiva.
Il volto non è più lo spazio su cui si esalta la bellezza canonica, ma un territorio mobile, fragile, vulnerabile, che assorbe e restituisce emozioni, contraddizioni, sogni. Ogni elemento truccato o applicato, che si tratti di pigmenti, polveri, frammenti di tessuto o carta, non deve “stare bene”, ma parlare: evocare un suono, una memoria, una paura, un desiderio.
Il trucco, in questa visione, non si applica: accade.
Si dilaga in modo imprevedibile, si insinua nei vuoti, resta sospeso sui volumi come una nebbia o una ferita, prende forma come farebbe un sogno in bilico tra il piacere e la minaccia.
Non c'è simmetria, non c'è finalità estetica. C'è un’urgenza narrativa, una visione interiore che cerca il proprio linguaggio.
Dunque, il make-up daliniano non rientra nella categoria del “beauty”.
È un atto poetico e inquieto.
È surreale nel senso più vero: oltre il reale, oltre l’epidermide, oltre il trucco.
A mio avviso, il surrealismo richiama un make-up che trascende le regole convenzionali della bellezza: non si limita all’applicazione cosmetica, ma si apre a una dimensione creativa più ampia, in cui materiali extra-ordinari, come tessuti, carte, polveri, gel, lattice o acetati, diventano strumenti narrativi. È attraverso questa integrazione materica che il trucco può davvero farsi linguaggio, capace di evocare e amplificare le visioni di Dalí in tutta la loro forza simbolica e immaginifica.
Quella che propongo è una mia personale interpretazione di come un’opera possa essere letta e poi traslata in forma visiva attraverso il make-up. Non una regola, ma uno spunto: un esempio di come la creatività possa dialogare con coerenza e profondità con il linguaggio del quadro, trasformando il volto in una superficie sensibile dove la pittura incontra la pelle, e il sogno, in tutti i sensi, prende forma.

La persistenza della memoria (1931)
Il tempo si scioglie. Non esiste più la linearità né la logica delle ore. Gli orologi si deformano, diventano molli, si adagiano sulle superfici come se fossero stanchi di scandire la realtà. Tutto nel quadro è silenzioso, immobile, sospeso. La luce è limpida e crudele, ma nulla si muove. Solo la materia si arrende al fluire di qualcosa che non si può trattenere: la memoria, il ricordo, il tempo interiore.
Questa visione di Dalí non va replicata, ma evocata. Il make-up non deve cercare di imitare gli orologi molli, sarebbe illustrativo, didascalico. Piuttosto, può suggerire l’idea di un volto attraversato dal tempo, su cui qualcosa ha cominciato a cedere, a colare, a disfarsi. Si potrebbe immaginare un viso trattato come una superficie sottoposta alla dilatazione del tempo. Non simmetrico, non netto. Un volto su cui alcuni volumi si abbassano, si piegano, come se la pelle fosse stanca o liquefatta. Materiali morbidi e lucidi come gel trasparenti, strisce di lattice sottile, cera morbida, possono essere applicati per creare l’illusione di forme che si piegano, colano, cedono. Come palpebre che si allungano oltre l’occhio, zigomi che sembrano fondersi con la mandibola, una bocca che si trascina al di là dei contorni. Non come una maschera grottesca, ma come un lento processo, quasi naturale, come il fluire dell’ombra sul viso nel pomeriggio. Il colore può essere rarefatto, pallido, ma con punti improvvisi di saturazione: un blu cupo nell’incavo dell’occhio, un giallo spento al centro della fronte, un rame ossidato sulle tempie. Come pigmenti rimasti nel tempo, come tracce di un volto che fu. Frammenti di tessuto lucido, seta slavata, pelle sintetica, possono essere applicati e lasciati pendere o aderire come membrane molli, come lembi della realtà che si staccano. Un orologio, se presente, non deve mai essere intero: può essere solo suggerito, inciso appena nella cera, o applicato in forma di curva molle lungo la guancia o il collo. Questo make-up non cerca equilibrio. È un volto su cui il tempo ha agito, ma non distrutto. È la trasformazione lenta, la stanchezza del ricordo, la bellezza dell’impermanenza. Un volto che non mostra l’età, ma la memoria del tempo che l’ha attraversato.

Volto di Mae West utilizzabile come appartamento surrealista (1934-35)
Il volto diventa architettura. Ogni elemento occhi, naso, bocca, smette di essere carne e assume la forma di oggetti e arredi. Il naso è un camino, la bocca un divano rosso, gli occhi due quadri. Tutto è sovrapposto, progettato, eppure ambiguo. Mae West non è ritratta: è trasformata in spazio, in ambiente abitabile. È desiderio messo in scena, eros trasformato in decoro. Questa visione non può essere tradotta in trucco tradizionale. È necessario pensare al volto come a uno spazio da costruire. Un interno, più che un’estetica. Il make-up non veste il viso: lo abita. Si potrebbe immaginare un trucco che rifiuta l’organicità. Che ricalca strutture. Il viso diventa planimetria, teatro, progetto. Non c’è morbidezza, ma incastri: forme che sembrano incollate, incastonate, più che sfumate. Il sopracciglio può diventare una cornice, l’area naso-fronte una trave portante, la bocca un volume pieno, quasi scultoreo. Materiali da interni come velluto, vinile rosso, specchi miniaturizzati, carta da parati in microtexture, possono essere usati come inserti. Un piccolo rivestimento lucido sulle labbra (non solo rossetto, ma vero e proprio tessuto adesivo) può evocare il divano. Le palpebre possono accogliere frammenti riflettenti o tessuti con motivi geometrici, come tende o quadri astratti. Non c’è bisogno di bellezza classica: è la teatralità a guidare. Un cerone monocromatico può uniformare il viso come base artificiale, mentre i volumi vengono suggeriti con colori piatti, quasi plastici: rosa gomma, rosso lacca, ottone, grigio fumo. Come se la pelle fosse finta. Come se il volto fosse l’interno di un appartamento. Piccoli oggetti possono emergere: un pezzo di metallo piegato come una maniglia, una perlina che simula un pomello, una striscia di plastica trasparente lungo il profilo mandibolare, come un’anta di vetro. Tutto è citazione, ma non letterale. È un make-up concettuale, che mette in discussione la funzione del volto. Non trucco per apparire, ma trucco per ospitare. Per diventare scena. Perché il desiderio, in fondo, non è mai solo carnale: può essere uno spazio dove ci si rifugia, un salotto in cui attendere, un corpo abitato da simboli.

Il grande onanista (1929)
Un volto gigante si piega verso il basso, gli occhi chiusi. È l’immagine del desiderio introverso, della tensione erotica che non trova sfogo. Intorno, visioni simultanee: una cavalletta sul viso, un leone con le fauci aperte, un fiore, una donna nuda. Tutto si sovrappone come in un’ossessione. È un corpo senza pace, attraversato da desideri che non trovano equilibrio. È sogno e frustrazione, immaginazione che si avvolge su se stessa. Questo quadro non può essere rappresentato, ma insinuato. Il make-up non deve “ornare” ma scomporre: come se il volto non fosse più un volto, ma un organismo in trasformazione. Si potrebbe ipotizzare un trucco che sprofonda in se stesso. Le linee non vanno verso l’esterno, ma sembrano scivolare verso il basso, afflosciarsi, piegarsi come la testa nel dipinto. Una gravità interiore. Si può lavorare con materiali molli, cedevoli: gel trasparente che cola come bava, piccoli lembi di lattice o silicone flessibile appoggiati sulle guance o sulla fronte, come membrane di una pelle in mutazione. Il colore non deve esplodere: deve trattenersi. Toni terrosi, beige, rosati smorzati. Ma da queste tonalità pacate possono emergere sprazzi improvvisi come un arancio/verdastro, un rosso cupo, un oro smorzato come fantasmi visivi, interruzioni della monotonia. Il volto può avere zone disturbate: un’applicazione materica con sabbia sottile o glitter mescolati a cera trasparente sulle tempie o sotto gli occhi, come parassiti incollati. Un richiamo alla cavalletta, al senso di disturbo. Si può anche lasciare una zona scoperta, una macchia nuda, come se il trucco avesse esitato o si fosse ritirato, il rifiuto di apparire. Al centro della fronte, si potrebbe inserire un elemento scultoreo: una piccola forma curva, in carta, pelle o plastica modellata, che simuli la testa chinata del soggetto, come se il volto stesso si stesse guardando dentro, implodendo. Il make-up qui diventa rituale psichico: non estetico, ma onirico. Un’esplorazione del volto come spazio inquieto. Dove il desiderio non è liberazione, ma prigione. Dove il trucco non decora, ma racconta un fallimento bellissimo.

Cigni che riflettono elefanti (1937)
Tre cigni eleganti si specchiano nell’acqua: ma il loro riflesso non restituisce l’identità attesa. Le ali diventano orecchie, i colli si piegano a formare proboscidi: sono elefanti, creature pesanti e maestose. Questo dipinto è un ribaltamento: ciò che appare leggero si rivela pesante, ciò che sembra naturale si mostra impossibile. La realtà è doppia, ambigua, speculare. Lo sguardo non sa più dove credere. Nel Make-up l’ambiguità non va mai illustrata in modo didascalico, ma evocata. Qui non si tratta di replicare un volto sdoppiato, ma di suggerirne la presenza, come se lo spettatore avvertisse che sotto l’apparenza si nasconde un secondo strato, un altro sé. Il trucco si costruisce quindi su due livelli: uno manifesto, l’altro latente. Un volto che è specchio e maschera allo stesso tempo. Si potrebbe partire da una base lucida, cosmetici in gel o siliconici cangianti nei toni verdi bluastri, grigi madreperlacei, azzurri profondi che evochino la superficie mobile e instabile dell’acqua. Su questa superficie si innalza un altro volto: una maschera effimera, costruita con garza irrigidita o tulle strutturato. Questa seconda "pelle" non aderisce alla prima, ma vi galleggia sopra, come un riflesso sospeso. Può essere fissata al perimetro del viso con piccoli supporti invisibili, creando uno scarto, una distanza tra ciò che si vede e ciò che si è. Non si cerca simmetria, ma sdoppiamento. La maschera può essere incompleta, sfilacciata, lacerata in alcuni punti, per lasciare intravedere ciò che c’è sotto: un’interiorità che non coincide più con l’apparenza. Il make-up sulla maschera non punta a valorizzare i tratti canonici del volto, ma a spiazzarli: ciò che vediamo potrebbe essere il riflesso di un pensiero, o di un ricordo che si rifiuta di scomparire. Questo trucco non vuole rassicurare, ma disorientare. Non è trucco da indossare, è trucco da attraversare: un’allusione al fatto che ogni volto è sempre almeno due, quello che mostra e quello che trattiene. E forse, nel mezzo, qualcosa che neanche il volto stesso riconosce.

Volto della guerra (1940)
Un volto mummificato fluttua nel vuoto, occhi e bocca spalancati che non mostrano organi, ma altri volti, identici, altrettanto spalancati, in un effetto infinito. È un grido che si propaga senza tempo, una spirale della sofferenza che non si estingue. I toni sono seppiati, terrosi, putrefatti. Intorno, serpenti: arrotolati, pronti al morso, chiusi in se stessi. Non c’è redenzione, solo ripetizione. Non c’è vita, solo memoria di una morte che continua a nascere.
Non è un Make-up da creare: è un trucco da subire. Il volto, in questo caso, non deve decorarsi, ma deteriorarsi. È come se portasse le tracce di qualcosa che non è accaduto su di lui, ma che lui ha visto. Un volto testimone, contaminato dalla visione della guerra. Il punto di partenza può essere una base spenta, quasi malata. Toni ocra spento, verdastri o grigi opachi mescolati a sabbia per ottenere una pelle che non riflette, ma assorbe la luce. Una pelle che non vuole essere toccata. Per simulare la moltiplicazione dei volti dentro il volto, si possono inserire piccole forme, ovali di carta anticata, frammenti di fotografia stampata su acetato che ricordano eco visive, ripetizioni imperfette sparse sul volto e sul collo. Possono essere lasciate semi-trasparenti, come fantasmi che emergono dalla pelle.
Le orbite degli occhi possono essere svuotate, non con il buio classico dello smoky, ma con vuoti cromatici: polveri neutre che desaturano lo sguardo, o persino strappi simulate con del lattice, lacerazioni reali nel materiale steso. La bocca, invece, può essere accennata con pigmenti rugosi, come terra compressa o fango essiccato, per suggerire che quel grido non è più possibile: si è fossilizzato. Elementi materici possono simulare la corrosione: pezzi di tulle strappato, retine metalliche arrugginite, colla cosmetica fatta seccare in modo irregolare. Piccole scaglie, granelli di sabbia, frammenti di cartapesta invecchiata applicati come lesioni, non ferite fresche, ma memorie durevoli della carne. Toni ruggine, marrone spento, giallo grigiastro, ma senza alcuna luminosità: ogni colore è asciutto, consumato, opaco. Come se il volto fosse stato abbandonato in una stanza vuota e ci fosse rimasto per anni. Un make-up così non deve commuovere, deve disturbare. Deve portare addosso l’eco di qualcosa che è accaduto troppo a lungo. È un volto che non ha più occhi per vedere, ma solo tracce per ricordare.

Apparizione del volto di Afrodite di Cnido (1981)
Il volto classico di Afrodite emerge da un paesaggio spezzato, tra sabbia, pietre, architetture e animali. È un volto antico, riconoscibile, eppure spaesato: si disfa e si ricompone in frammenti, come se l’idea stessa di bellezza fosse sospesa tra ciò che appare e ciò che si nasconde. Il volto non compare: accade. Come un miraggio o un riflesso inafferrabile, si forma e si dissolve. L’immagine della dea è un’apparizione instabile, una figura che abita contemporaneamente il marmo e la sabbia, il sogno e l’oblio.
Su questo volto, il make-up non definisce, ma interroga. Non dà evidenza, ma sospensione. L’incarnato può essere lavorato come una superficie porosa, trattata con velature di polveri chiarissime, quasi impalpabili, come polvere di argilla bianca o farina di riso a simulare la fragilità del marmo antico che sfuma nei granelli desertici. Ma su questa pelle eterea affiorano crepe, linee invisibili che si intravedono solo in certe luci: fili sottili di colla cosmetica secca o carta di riso spaccata, come a evocare il tempo che si incrina e frantuma la bellezza classica. Gli occhi, velati, sembrano guardare altrove: uno sguardo annebbiato, che non si posa. Gli occhi possono essere coperti con veli trasparenti, tulle leggero o seta tagliata a lembi, incollati a sbordare oltre l’arcata. Non truccano: nascondono. Sono la soglia di qualcosa che non si lascia vedere. Dove ci si aspetterebbe colore, guance e labbra, tutto si ritira: nessuna pigmentazione piena, ma piuttosto un’assenza costruita, una sottrazione. Le labbra sembrano disegnate con polvere di argilla o talco, più simili a un bassorilievo che a un tratto cosmetico. È il bacio perduto di una divinità dimenticata. Si possono applicare frammenti di garza grezza, o carta velina arricciata, come residui di un paesaggio che si sta sgretolando. Nulla è simmetrico. Nulla è stabile. Piccoli inserti di pigmento dorato ossidato possono comparire tra le crepe, come i resti di una luce sacra che resiste nonostante tutto. In questa Afrodite, la bellezza non è ornamento: è rovina sacra, eco di un ideale che non ci appartiene più, e che ci appare oggi solo come una visione tremolante nel deserto della coscienza.

Metamorfosi di Narciso (1937)
Narciso si guarda nell’acqua e, mentre si contempla, si dissolve. Il suo corpo si trasforma in una mano che stringe un fiore: una metamorfosi silenziosa, irreversibile, come se l’identità si frantumasse sotto lo sguardo. Il desiderio di riconoscersi diventa la propria fine. Questo make-up non racconta una trasformazione estetica, ma un processo di scomparsa. Si può immaginare un volto che non si definisce nei contorni, ma si smaterializza verso l’interno, come se la pelle assorbisse il suo stesso riflesso. Il trucco potrebbe partire da un centro fittizio, una zona iperdefinita del viso, magari una guancia o la linea mandibolare, da cui tutto si frantuma. Qui si può concentrare un pigmento scuro o una sostanza corposa (cera, plastilina pigmentata), come una materia che si solidifica mentre tutto il resto si fa liquido. A partire da questo centro, il trucco si disperde in veli traslucidi, ottenuti con gel lucidi, cere, pigmenti ad acqua diluiti, come strati d’acqua che deformano il volto. Queste trasparenze possono essere attraversate da filamenti bianchi o dorati, come nervature o crepe, a suggerire la fragilità del confine tra sé e l’immagine riflessa. Sul volto possono essere applicati piccoli frammenti di specchio opaco, carta stagnola rovinata o plastica trasparente tagliata a petali: non per riflettere il volto, ma per disturbarlo, moltiplicarlo, spezzarlo. Un trucco che riflette senza restituire. La bocca può essere parzialmente “anestetizzata”, come se fosse incapsulata, coperta da un velo cerato o da carta di riso spennellata di pigmenti spenti. L’idea è che la voce del soggetto si dissolva insieme alla sua forma. L’unico elemento vivo potrebbe essere un fiore centrale, vero o ricreato con tessuto, inserito nel trucco come epilogo: non decorazione, ma residuo organico della trasformazione. Un fiore che nasce dove prima c’era un volto: fragile, vivo, ma senza identità. Il volto in questo trucco non è un supporto, è la scena di una perdita. Non ci si trucca per mostrarsi, ma per perdere definizione, per sparire dentro uno sguardo che non sa più chi sta guardando.

Galatea delle Sfere (1952)
Il volto amato di Gala si dissolve in un sistema di sfere, come se la carne potesse essere riscritta secondo le leggi dell’atomo. È ancora un volto, ma fatto di vuoti, di ripetizioni, di interruzioni. Non c’è rottura: c’è una nuova armonia, costruita sull’assenza. Questo make-up non punta all’unità, ma alla ricostruzione frammentaria. Il viso viene pensato come uno spazio discontinuo, dove ogni parte è trattata come fosse un corpo a sé: la fronte, una galassia; la guancia, un pianeta isolato; la tempia, un vuoto tra due orbite. L’effetto può essere ottenuto attraverso applicazioni modulari: dischi in tulle rigido o carta compressa, leggerissimi e sovrapposti, disposti a intervalli regolari ma non simmetrici. Ogni disco può avere una sua temperatura visiva: opaco, perlato, metallico, trasparente come se il volto fosse attraversato da un campo energetico in movimento. L’aria tra le sfere è altrettanto importante: in questi spazi vuoti si può lasciare la pelle nuda o velarla con una polvere chiarissima, impalpabile, quasi come uno spolvero di gesso. Il contrasto tra pieno e vuoto deve rimanere sottile, mai decorativo: è la tensione tra forma e dissoluzione. I bordi del viso, solitamente margini netti, possono invece farsi ondulati, frammentari, come se il volto si dissolvesse nel campo visivo. Si può immaginare un bordo in garza leggera sfumata nei toni del celeste, dell’avorio, del rame ossidato.
Nel centro, dove ci si aspetterebbe lo sguardo, si può introdurre un punto sospeso: una piccola sfera metallica, o una goccia di resina trasparente, un’unità in cui si condensa tutto il resto. Non è un occhio, ma un satellite. Questo trucco non compone un volto: lo scompone con grazia scientifica, come se ogni emozione potesse essere letta come un’equazione. Non c’è dramma, ma una meraviglia astratta, rarefatta. È il trucco della distanza: il volto non sente, ma pulsa in orbita.

Morbida costruzione con fagioli bolliti: premonizione di guerra civile (1936)
Un corpo lacerato si contorce su se stesso, in una lotta cieca e crudele. È carne contro carne, denti contro ossa, fame contro distruzione. La materia è molle ma feroce: sembra cedere, ma resiste. Tutto è deformato, come se il dolore avesse piegato la geometria. Questo trucco non è pensato per abbellire, ma per distorcere con lucidità. Il viso diventa campo di battaglia interiore, luogo in cui il conflitto prende forma visiva.
Si può immaginare un make-up che non si stende, ma si lacera, si apre in zone slabbrate, ottenute attraverso l’uso di garze imbevute di pigmenti terrosi, argilla, ocra, ruggine, increspate sulla pelle fino a suggerire lacerazioni simboliche. La materia gioca un ruolo fondamentale: frammenti di carta grezza o pelle sintetica possono essere applicati come fossero muscoli tesi, nervature, tendini. Questi inserti si avvolgono attorno al viso in modo irregolare, creando tensione visiva e tattile. Il colore può seguire una scala viscerale e carnale: beige giallastro, marroni profondi, rossi sbiaditi, con inserti verdastri che alludano alla decomposizione. Il tutto può essere modulato con gel traslucidi, densi e lucidi, che simulano sudore, bile, o lacrime raggrumate. Non esistono linee armoniche: il trucco si piega, si torce, si duplica, seguendo curve innaturali. Una guancia può apparire rigonfia, una tempia scavata. Si può anche immaginare una asimmetria estrema tra le due metà del volto: una più viva e gonfia, l’altra spenta, riassorbita, come se stesse scomparendo. Dettagli come piccole cuciture finte, realizzate con filo da ricamo applicato alla pelle, possono evocare tentativi maldestri di rammendare ciò che è andato perduto. Ma nulla si ricompone davvero. Questo non è un volto per essere mostrato, ma per essere attraversato dal dolore e dalla memoria. Il trucco non è finito, non è stabile: è qualcosa che sta ancora accadendo, una materia che si contorce sotto la superficie.

Gli Elefanti (1948)
Dalí raffigura due elefanti dal corpo possente ma sorretti da zampe lunghissime e sottili come trampoli. Sulla loro groppa portano obelischi che sembrano galleggiare nell’aria, ispirati probabilmente all’Obelisco della pace di Gian Lorenzo Bernini. Il paesaggio desertico sullo sfondo è tipico delle visioni oniriche daliniane: una terra spoglia, fuori dal tempo, in cui le leggi della fisica non valgono più.
Il contrasto tra la pesantezza simbolica degli obelischi (segno di potere, eternità, memoria) e l’inconsistenza delle zampe rappresenta una tensione tra forza e fragilità, tra il desiderio di elevarsi e l’instabilità del sogno. Il cielo rosso-arancio, infuocato e straniante, aggiunge un senso di inquietudine e mistero: è un colore che non consola, ma riscalda e minaccia allo stesso tempo. Ricorda un tramonto eterno, o forse una dimensione mentale sospesa tra allucinazione e premonizione. Sul fondo della scena, due figure umane si stagliano su un’altura, tese in un gesto che sembra cercare un contatto. Sembrano tentare di toccarsi, ma restano separate, come sospese in un eterno desiderio di congiungimento. Possono essere lette come un doppio, due parti della stessa coscienza oppure come un simbolo di tensione relazionale: un’aspirazione alla fusione mai completamente realizzata. Il loro slancio fragile contrasta con la solennità degli elefanti, rappresentando forse la condizione umana, vulnerabile e incompleta, di fronte all’enormità dei propri sogni o traumi. Il make-up potrebbe prendere forma attorno a una linea centrale verticale, una colonna che taglia il volto dalla fronte al mento. Questa linea non è disegnata, ma costruita: può essere un’asta sottilissima di metallo o plastica trasparente, su cui si fissano fili pendenti, dorati o bianchi, che cadono fino a sfiorare il petto. Non seguono la gravità, la suggeriscono. Sono zampe-simbolo, che non sorreggono ma celebrano il vuoto. Ai lati del volto: assenza. Il trucco resta minimale, quasi sacrale. Una base neutra, opaca, su cui emergono segni rituali: piccole incisioni sottili tracciate con pigmento oro opaco o bronzo ossidato, simili a geroglifici. Non raccontano, ma testimoniano. Gli occhi non sono il centro. Lo sguardo si svuota, incorniciato da pieghe evanescenti di carta setosa o organza beige, fissate ai lati della testa come ali cadenti, come se il volto fosse in fase di mummificazione del ricordo. La bocca può essere spenta, o segnata da una striscia metallica verticale, come un suggello. Il colore non è brillante, ma polveroso, come bronzo consumato dal tempo. Nessun contorno. Nessuna seduzione. Sulle guance, anziché blush: ceneri pigmentate, pressate in aree geometriche che sembrano lastre o piastre, come se il volto fosse stato inciso nel marmo e poi eroso. Questo make-up non è un volto, ma un totem. Una figura sacra sospesa tra il cielo e la terra, tra ciò che si erge e ciò che vacilla. Un elefante che non avanza, ma vegliando resta, con le zampe che non poggiano ma indicano la direzione dell'invisibile.
Non c’è narrazione. C’è presenza.

Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944)
In questo dipinto, Salvador Dalí condensa l’essenza del sogno in un’unica immagine sospesa e carica di tensione. Una donna nuda galleggia nel vuoto sopra una roccia levigata, in uno stato di quiete perfetta: è Gala, musa e moglie dell’artista, colta nel momento che precede il risveglio. Accanto a lei, una melagrana fluttua nell’aria come simbolo di fertilità e mitologia, mentre una piccola ape la sorvola, disturbando il suo sonno. Da questo gesto minimo, il ronzio dell’ape, nasce una catena di immagini violente e surreali. Dalla bocca spalancata di un pesce rosso emergono due tigri ruggenti, in successione esplosiva, e infine una baionetta che sta per colpire il braccio della donna. Sullo sfondo, un elefante dalle zampe lunghissime, con un obelisco sulla schiena, attraversa il cielo come un’allucinazione sospesa. L’acqua riflette un cielo che si fa sempre più irreale. La scena mostra una logica onirica perfetta: le immagini si concatenano come in un sogno lucido, dove ogni dettaglio ha una carica simbolica, ma nessun significato razionale. È la rappresentazione pittorica della teoria freudiana del sogno, in cui il reale viene tradotto dall’inconscio in una narrazione deformata, sensuale e minacciosa allo stesso tempo. Nel make-up: Non un trucco da indossare, ma una scossa lieve. Come se la pelle stesse ancora dormendo. In questa visione, il volto non è protagonista ma vittima di un’influenza esterna. È un piano di carne che subisce un’onda: un’eco del sogno, una tensione che cresce senza un'origine chiara. Il make-up non si applica per esaltare i tratti, ma per interromperli. Nulla è definito, tutto accade per interferenza. Il punto di partenza non è la forma, ma l’interferenza tra i sensi: un rumore che diventa immagine, un'immagine che diventa pressione, una pressione che si traduce in pigmento. Immagina che il trucco emerga in zone del viso come una reazione involontaria: una guancia che si arrossa di colpo (rosso opaco, a macchia), una palpebra che s’illumina senza motivo (oro freddo liquido, diluito), un sopracciglio che sembra colpito da una corrente (trasformato in un’onda, con gel trasparente e frammenti di carta).
Materiali
Carta crespa sfilacciata, posata sulla tempia o sulla fronte come residuo di un pensiero troppo acuto, che si è strappato nel passaggio dal sogno alla coscienza.
Filamenti di lattice liquido lasciati colare dal centro della fronte, appena colorati di viola spento o blu ottico: non lacrime, ma nervature oniriche.
Tulle a effetto ragnatela, teso tra la mandibola e lo zigomo come una zona tesa, vulnerabile, minacciata da qualcosa che non si vede.
Gel trasparente punteggiato da pigmenti neri e gialli: una metafora silenziosa per l’ape e il suo volo, che lascia residui e increspature invece di suoni.
Il colore non costruisce armonia: rompe, isola, devia. Si può iniziare da una chiazza acida (giallo-ambra) su una tempia, poi lasciar diramare piccole tracce ruggine o rosa piombo in direzioni incoerenti: nessuna simmetria, nessuna coerenza. L’importante non è dove si applica il colore, ma dove manca. I vuoti sono più eloquenti dei pieni. Il naso resta nudo. La bocca, assente. Le occhiaie, esaltate con trasparenze violette, come se lo sguardo stesse ancora dormendo mentre il corpo si risveglia. Questo make-up non descrive nulla: interroga. È la soglia tra il sonno e il pericolo, tra un ricordo che svanisce e un’intuizione che non si lascia afferrare. Non deve essere bello, non deve essere logico. Deve solo restare un attimo in più prima del risveglio.


