Il regno della straordinarietà
- carlabelloni

- 20 apr
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 28 mag

Ho notato spesso come molti truccatori o semplici appassionati del make-up, si elevino a giudici, con una sorprendente sicurezza e una sorprendente mancanza di strumenti.
Le valutazioni si fermano all’effetto scenico, alla reazione immediata che un’immagine provoca, senza chiedersi se quel trucco ha senso, se racconta qualcosa, se il personaggio è coerente, se è contestualizzato.
La straordinarietà viene attribuita con leggerezza, ma quasi sempre coincide con ciò che è distante dalla propria portata tecnica, artigianale o pittorica.
Non si riconosce il lavoro nascosto, non si analizza la complessità formale e narrativa di una creazione.
Si scambia l’estetica per bravura, la decorazione per significato, il diverso per “geniale”.
E invece, il vero straordinario, in qualunque ambito creativo, si misura con criteri ben più rigorosi.
Chiunque intraprenda la strada del make-up dovrebbe accorgersi di quanto sia facile confondere l’effetto con il contenuto. Le persone vedono il risultato finale, giudicano il “bello” o il “brutto”, ma raramente si domandano cosa ci sia dietro, quali scelte, competenze, studi, e quale profondità teorica o narrativa si nasconda in un trucco ben riuscito.
Per chi lavora con la materia del viso e del corpo, la sfida quotidiana è proprio questa: essere giudicato da chi non sa vedere.
Uno degli esempi più frequenti è quello della costruzione di personaggi fantasy: spesso si ammirano elaborati pittorici sul viso e sul décolleté di altissimo livello tecnico, ma privi di una coerenza visiva complessiva.
Si nota subito il contrasto tra la qualità della pittura e dettagli fuori registro come capelli a boccoli, sopracciglia perfettamente delineate, ciglia finte drammatiche o accessori scelti senza alcun criterio simbolico o semiotico.
Il risultato?
Un’accozzaglia estetica che, per quanto sorprendente, non comunica nulla di chiaro.
La domanda sorge spontanea: “Che personaggio è questo?”.
E la risposta è che spesso non esiste un personaggio, perché manca un pensiero unitario, manca un linguaggio non verbale coerente.
Non basta dipingere magistralmente un volto: la costruzione di un personaggio richiede una visione coerente, in cui ogni elemento, dal disegno delle sopracciglia alla linea della bocca, dalla forma del naso al trattamento dei capelli, fino al colore della pelle, concorre a definire un’identità e a sostenere il concetto narrativo. Sono proprio questi tratti a determinare il grado di umanità percepita: modificarli o annullarli significa deviare dai codici visivi del volto umano e generare una fisionomia irreale, sospesa tra riconoscibile e immaginario. È il caso, ad esempio, della costruzione di personaggi fantasy: elfi, streghe, creature ibride o ancestrali spesso si distinguono per l’alterazione di uno o più tratti fisionomici, che li proiettano in una dimensione simbolica e narrativa ben oltre il reale. In questo senso, il volto diventa un campo di senso: ogni segno scelto, amplificato o omesso, è una dichiarazione narrativa.
La vera straordinarietà, dunque, non risiede solo nell’abilità tecnica, ma nella capacità di costruire significato attraverso ogni dettaglio.
Ed è proprio qui che molti giudizi affrettati cadono: si premia ciò che si allontana dalle proprie capacità, senza valutare se ciò che si osserva sia davvero “giusto”, compiuto, coerente.
Nel linguaggio professionale, la parola “straordinario” non dovrebbe essere usata a cuor leggero.
Significa letteralmente “fuori dall’ordinario”, e nel nostro ambito indica un’azione, un’idea, un’opera che va oltre la normalità tecnica e creativa.
Non si tratta di compiacere qualcuno, ma di riconoscere, anche quando è invisibile, il valore intrinseco di un lavoro ed il suo linguaggio.
Nel 2017, l’Oscar per il miglior trucco e acconciatura venne assegnato ad Alessandro Bertolazzi, Giorgio Gregorini e Christopher Nelson per Suicide Squad. Un premio che suscitò clamore e polemiche.
In molti misero a confronto il trucco dei personaggi del film con le complesse protesi di Star Trek Beyond, ritenendo il confronto impari, anche alla luce del fatto che il film di fantascienza, uscito nello stesso anno, era stato candidato nella stessa categoria agli Oscar.
Va però sottolineato che, in entrambi i casi, si trattava di team composti da acconciatori, truccatori ed effettisti di prestigio, con una comprovata esperienza nei rispettivi ambiti di specializzazione. Proprio per questo, la scelta dell’Academy ha dimostrato una capacità di giudizio non basata soltanto sulla spettacolarità tecnica, ma sulla straordinarietà del linguaggio espresso dal trucco in relazione ai personaggi.
Molti, vedendo Harley Quinn, hanno ridotto il lavoro a “trucco sbavato e due codini colorati”, senza cogliere che non si trattava di un mero tecnicismo, ma di una costruzione identitaria precisa, coerente con la psicologia del personaggio e con il tono narrativo del film. Un trucco apparentemente semplice, ma in realtà profondamente codificato.

La foto che più circolò mostrava una creatura aliena di Star Trek da un lato e Harley Quinn dall’altro, come a dire: “Com’è possibile che abbia vinto questo?”
Ma nel fare quella comparazione, molti hanno rivelato solo i propri limiti.
Creare una creatura da zero, per quanto spettacolare, offre una libertà totale. Anche se, per risultare credibile, ogni scelta, dal colore alla texture della pelle, fino agli elementi tondi o puntiformi, deve rispondere alla logica della comunicazione non verbale e contribuire alla costruzione di un’identità visiva coerente.
Ma reinterpretare personaggi iconici, radicati nell’immaginario collettivo, come Harley Quinn o il Joker, è un’altra sfida. Richiede un lavoro profondo di sintesi, ricodifica e rilettura.
Servono cultura visiva, conoscenza creativa, equilibrio narrativo.
Il lavoro di Bertolazzi è stato proprio questo: ha saputo trasformare in immagine nuova ciò che già aveva una forma definita, restituendogli forza e coerenza.
Pochi artisti al mondo sarebbero in grado di farlo con la stessa precisione e visione.
Per comprendere davvero la complessità di quel lavoro, immaginiamo questo: provate a disegnare da zero un personaggio alieno, inventandone ogni dettaglio.
Poi, provate a reinterpretare Pinocchio in chiave moderna.
È nella seconda sfida che si misurano davvero le capacità artistiche: prendere ciò che esiste e farlo diventare qualcos’altro, senza tradirlo.
Ecco perché, per chi vuole fare il truccatore, è fondamentale costruirsi un bagaglio conoscitivo solido e diversificato.
Non solo tecnica, ma storia dell’arte, cinema, psicologia visiva, cultura dei linguaggi.
Perché la vera straordinarietà si riconosce solo quando si sa dove cercarla.
Semplificare, omettere o ignorare il linguaggio che si nasconde dietro ogni creazione è un modo per negare la funzione stessa del make-up come forma di comunicazione visiva.
Il trucco è un linguaggio non verbale: chi non lo conosce rischia di ripetere formule vuote. Ma chi lo padroneggia, chi ne conosce le radici e le possibilità, può davvero raccontare storie potenti, dare voce a identità, costruire mondi.
In un’epoca in cui tutto è ridotto a immagine, diventare truccatori significa diventare anche interpreti, traduttori, autori.
È questo, il vero regno della straordinarietà: non un luogo per pochi eletti, ma uno spazio aperto a chi ha il coraggio e la disciplina di studiare, osservare, capire e creare con consapevolezza.


