GLOSSARIO DISFUNZIONALE "Baking"
- carlabelloni

- 10 feb
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 11 giu

Tutto comincia con uno scatto postato su Instagram da Kim Kardashian nel 2010: un primo piano in camerino, lo sguardo basso e una vistosa quantità di cipria chiara sotto agli occhi nella zona perioculare.
Nel riflesso dello specchio si intravede un barattolo di cipria del brand RCMA, noto per la sua linea di fondi cerosi a uso professionale.
Da quel momento, vista la viralità dell’immagine e la potenza mediatica della celebrità, influencer più navigati cavalcano l’onda e battezzano quella prassi con un nuovo nome: BAKING
Il termine baking, fino ad allora sconosciuto in ambito cosmetico, viene improvvisamente adottato per definire una 'tecnica' che non esiste, almeno nei termini in cui viene presentata.
Va detto che un’applicazione simile era già ampiamente utilizzata nei trucchi teatrali e nelle comunità drag, dove le basi grasse o cerose richiedevano un fissaggio importante con ciprie ad alta capacità assorbente, per garantire stabilità ottica e tenuta sotto luci sceniche intense e prolungate.
Che, però, sia il mondo dell’influencer marketing a coniare un termine con una disposizione tecnica è comprensibile: in quel contesto la comunicazione punta alla suggestione più che all’accuratezza, all’invenzione di trend più che alla spiegazione dei processi.
Ma quando questo linguaggio viene ripreso da un truccatore professionista, o addirittura insegnato da un docente, il livello di superficialità è allarmante.
Chiariamo i fatti.
Quel make-up, realizzato per un red carpet, nasce per rispondere a esigenze di tipo audiovisivo: luci molto intense ed abbaglianti, esposizione fotografica, resa ottica che deve valorizzare il lavoro dei chiaro-scuri strutturali creati con fondi cerosi. In quel caso, la cipria aveva una funzione precisa: fissare in modo stabile un prodotto tecnico, non tanto per “opacizzare”, ma per garantire tenuta, integrità della costruzione e resa ottica coerente con l’esposizione luminosa.
Parliamo quindi di un settaggio funzionale, non di una tecnica a sé.
Il “baking”, come viene chiamato, non ha alcuna base teorica né struttura operativa riconosciuta: è il frutto di un equivoco visivo, amplificato dalla cultura social che tende a trasformare in metodo qualsiasi immagine riproducibile.
Ciprie, filler e deformazioni del mercato
L’affermazione del baking come moda visiva ha prodotto conseguenze tutt’altro che trascurabili anche sul piano produttivo.
La cipria, da sempre concepita come prodotto di rifinitura in contesti professionali ben definiti, improvvisamente torna protagonista: non più alleata silenziosa, ma oggetto feticcio.
Le vendite si impennano, al punto da riportarla accanto a mascara e rossetti tra i prodotti più richiesti.
Ma qui entra in gioco un nodo tecnico cruciale: la cipria tradizionale, formulata con ingredienti a funzione assorbente, idrofila e lipofila, non è progettata per essere stratificata in grandi quantità, soprattutto su fondi fluidi a base siliconica, oggi tra i più utilizzati per via dell’effetto “seconda pelle”, molto apprezzato e ricercato nell'estetica odierna.
Il paradosso è evidente: ciò che oggi viene chiamato baking, un termine coniato e diffuso da influencer a partire da un backstage isolato di Kim Kardashian, affonda in realtà le sue radici nell’uso professionale di basi cerose o grasse, compatte e stabili, progettate per garantire continuità cromatica e tenuta ottica sotto luci fisse e direzionali. In quel contesto, l’applicazione abbondante di cipria aveva un senso tecnico preciso: fissare prodotti pensati per il trucco teatrale o fotografico, in relazione a specifici schemi di luce.
Quella stessa pratica viene però replicata in massa, completamente fuori contesto, su fondotinta fluidi siliconici, nati per offrire un effetto perfezionante e uniformante dell’incarnato. Prodotti progettati per rimanere sottili sulla pelle, dal finish setoso e levigato, con il tipico effetto blur delle formulazioni siliconiche. (Per effetto blur si intende un risultato visivo che sfoca otticamente le particolarità della pelle: pori dilatati, linee sottili e grana irregolare risultano meno visibili, come se ci fosse un leggero filtro levigante).
L’incompatibilità non è un dettaglio tecnico: è la conseguenza diretta di una comunicazione cosmetica che scambia l’eccezione per la regola.
Una cipria tecnica, applicata fuori contesto cosmetico, screpola, disidrata il cosmetico stesso, entra in conflitto con i polimeri filmogeni dei fondi siliconici.
E allora cosa succede?
Le aziende rispondono: per assecondare una pratica che non nasce da un’esigenza reale, ma da una tendenza visiva, modificano le formule. La cipria smette di essere un prodotto funzionale e diventa un prodotto visivo.
Al posto dei filler assorbenti, inseriscono negli ingredienti micro polveri sintetiche a effetto ottico: riempitivo, uniformante o correttivo. Agiscono rifrangendo o riflettendo la luce per attenuare particolarità e discromie dell’incarnato. Non fissano, non assorbono. Diffondono, levigano. attenuano.
È un cortocircuito che ha poco a che vedere con l’evoluzione tecnica e molto con l’opportunismo commerciale.
Una tecnica inesistente "il baking", così come è stato divulgato, modifica l’uso dei prodotti.
E l’uso improprio, amplificato dai social, costringe le case cosmetiche a riformulare per evitare che il trucco si screpoli, si separi, si disidrati.
Non per migliorare le prestazioni, ma per rendere compatibile l’errore.
Le aziende si accodano alle mode, cambiano le composizioni per lucrare su una richiesta fondata sul fraintendimento.
È così che un gesto privo di fondamento teorico finisce per alterare l’intero assetto tecnico di un comparto.
Quando il content detta legge sulla conoscenza, anche i prodotti smettono di rispondere a una logica progettuale.
La forma vince sulla funzione, l’estetica sulla resa, l’effetto sulla struttura.
Un professionista non può permetterselo
Chi lavora nel trucco professionale e ancor più chi insegna, non può permettersi di usare terminologie nate da una didascalia Instagram. Non solo perché tecnicamente improprie, ma perché rivelano un disallineamento profondo con la cultura cosmetica.
“Baking” è una parola che nasce da un fraintendimento visivo. Usarla significa contribuire a una narrazione deformata del mestiere, dove ogni cosa viene spettacolarizzata, decontestualizzata e svuotata della propria logica tecnica.
Un docente, un truccatore preparato, non si rivolge a un pubblico che vuole solo essere intrattenuto.
La sua responsabilità è quella di costruire linguaggio, consapevolezza, precisione.
In questo senso, l’uso del termine baking è molto più che una scelta stilistica: è un segnale di vuoto formativo.
Non basta fare un buon trucco. Bisogna anche saperlo spiegare. E per spiegarlo, bisogna capirlo.
Non solo un professionista non dovrebbe mai utilizzare un nome che, di fatto, non incarna alcuna tecnica reale, ma ha il dovere di prenderne le distanze con lucidità e consapevolezza.
Di fronte a un processo mediatico di tale portata, l’unica risposta possibile è l’affinamento della competenza.
Se fino a qualche anno fa acquistare una cipria professionale trasparente o traslucent significava, nella maggior parte dei casi, poter contare su una formulazione pensata per la scena, oggi questa certezza è venuta meno.
Il truccatore contemporaneo deve sviluppare una competenza ancora più raffinata: conoscere gli ingredienti, riconoscere le formule compatibili con il lavoro audiovisivo, saper leggere un INCI tanto quanto un brief di produzione. (Per brief di produzione intendo un documento o una comunicazione tecnica che riassume le esigenze e le condizioni operative di un progetto audiovisivo: tipo di luce, formato dell’immagine, resa colore desiderata, ambientazione, durata delle riprese)
Perché oggi, in nome di una performance estetica pensata per lo schermo del telefono, esistono ciprie create per rispondere alle richieste di un pubblico privato, un pubblico che al massimo si fotograferà al ristorante, sotto luci calde e diffuse.
Ma quelle stesse polveri, se applicate in contesto tecnico, diventano un rischio: alterano la resa, riflettono in modo anomalo, distruggono il lavoro delle luci e delle sfumature.
Non serve andare lontano per trovare gli effetti collaterali di questa deriva. Basta ricordare le immagini diventate virali di Angelina Jolie sul red carpet del 2014, con il viso segnato da scie bianche sotto gli occhi e la mascella: la dimostrazione plastica di come una cipria sbagliata, sotto luci tecniche professionali, possa mandare in crisi anche il trucco più curato.
Quell’episodio fece molto parlare nel settore: si trattava del famigerato effetto flashback.
Il termine viene usato per descrivere quel riflesso bianco innaturale che appare sul viso quando viene utilizzata una cipria ad alta percentuale di silica (biossido di silicio) o di altri ingredienti riflettenti, i quali, sotto luci intense e direzionate, restituiscono all’ottica una percezione distorta della realtà visiva, amplificando in modo innaturale la riflettenza della luce generata dall’interazione tra questi ingredienti e determinate condizioni di illuminazione. Questo crea un contrasto evidente tra il colore della pelle e le zone "sbiancate", invisibili a occhio nudo ma molto visibili in foto.
Ecco perché un professionista non può e non deve rincorrere le parole vuote della moda.
Deve invece assumersi la responsabilità di conoscere, distinguere, scegliere.
Perché la tecnica non si improvvisa, e il linguaggio non si svende. Nemmeno quando fa tendenza.
Oggi, il baking viene descritto così: “cuocere” il make-up lasciando riposare per 5 o 10 minuti una generosa quantità di cipria trasparente, in modo che il calore della pelle fissi fondotinta e correttore.
Ecco, se un professionista o peggio, un docente sposa davvero questa definizione, allora è il caso che appenda i pennelli al chiodo.
Perché la vera domanda, a questo punto, è una sola: com’è possibile esercitare questa professione senza conoscere il principio degli ingredienti cosmetici che si utilizzano?
E se proprio non ci riuscite col cosmetico, proviamo con un esempio più elementare.
Immaginate una spianatoia a 35 gradi di temperatura, ci spalmo sopra del burro e, su quel burro morbido, verso una montagna di farina.
Secondo certe menti, lasciandola “in posa” per cinque minuti, il calore della spianatoia dovrebbe fissare tutto.
Mi sento scema solo a scriverlo.
Eppure questo è il livello a cui siamo arrivati.
"Ci sono termini che, nel make-up, smettono di essere errori: diventano radiografie dell'incompetenza."


