GLOSSARIO DISFUNSIONALE. "Soft"
- carlabelloni

- 29 mar
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 29 mag

Quando tutto è “soft”, niente lo è davvero
Nel lessico del make-up, del marketing estetico e persino della comunicazione professionale, il termine soft è diventato un'etichetta passepartout.
Soft glam, soft editing, soft light, soft look. Tutto è soft, cioè "non troppo", "non aggressivo", "non evidente".
Ma anche: non spiegato, non codificato, non misurabile.
Una parola che si comporta come una forma: visivamente riconoscibile, social-friendly, ma linguisticamente vaga.
Comoda da usare, meno da analizzare.
Dal vocabolario, soft significa “morbido”, “tenero”, “delicato”, riferito a qualcosa che ha una consistenza o un aspetto poco rigido, dolce o poco intenso, e spesso indica una qualità attenuata o meno aggressiva rispetto a una controparte più dura o forte.
Nel linguaggio estetico, soft viene spesso usato per indicare qualcosa di “non marcato”, “non netto”, una resa visiva tenue, dai toni smorzati e dalle linee sfumate, ma senza specificare davvero né come, né quanto, né perché.
Il doppio uso: tra comunicazione visiva e formazione
È importante distinguere tra l'uso del termine soft in un contesto descrittivo e quello in ambito formativo o divulgativo.
In una didascalia, in un titolo di post o in una caption social, parole come soft glam possono avere un senso comunicativo efficace: aiutano il pubblico a orientarsi, a riconoscere un'estetica già condivisa, a costruire un immaginario. Sono scorciatoie che parlano un linguaggio comune.
Ma quando il termine soft viene utilizzato in ambito tecnico, didattico o professionale senza essere esplicitato, si entra in un terreno scivoloso.
Perché non si sta più comunicando un'impressione visiva, ma si sta trasmettendo (o eludendo) un contenuto formativo.
E qui entrano in gioco la consapevolezza, la conoscenza, la precisione e la responsabilità dell’informazione.
Soft come estetica (e come rifugio)
Nel make-up, soft sembra suggerire uno stile più naturale.
Ma è un’illusione.
La parola soft viene spesso utilizzata più per rassicurare che per descrivere con precisione: serve a tranquillizzare l’interlocutore che il risultato non sarà troppo carico, troppo marcato, troppo "fuori misura". Ma dietro questa scelta lessicale non c’è quasi mai una reale analisi visiva: soft diventa così un modo per edulcorare, non per definire, non per spiegare.
Rassicura il pubblico ("non è troppo"), rassicura chi crea contenuti ("puoi proporre qualcosa di sofisticato senza spaventare"), rassicura persino i brand.
Ma in realtà è un termine che elude il confronto tecnico: cosa rende un look davvero "soft"?
L'intensità cromatica?
Una nuance?
La sfumatura?
L'effetto visivo?
La resa sulla pelle?
Significa forse utilizzare cosmetici dai colori non contrastanti con l'incarnato?
O vuol dire applicare prodotti dalle densità traslucide, che donano trasparenza e impercettibilità? Oppure ancora è l'assenza di chiaro-scurali evidenti ?
O, più semplicemente, soft è solo un sinonimo di "naturale"?
Nessuna di queste opzioni è esplicitata quando il termine viene usato, eppure tutte potrebbero essere vere. O nessuna.
Nel linguaggio comune, una certa liberalità verso termini generici è comprensibile: servono a comunicare in modo rapido, immediato, inclusivo.
Ma se soft viene utilizzato da un professionista, o peggio ancora da un formatore, la questione si fa più grave.
Perché allora la parola non è più una scorciatoia espressiva, ma diventa una rinuncia consapevole alla precisione. E con essa, alla responsabilità didattica.
Soft come linguaggio disfunzionale
Nel momento in cui un professionista usa soft come categoria tecnica, qualcosa si inceppa.
Perché il termine non offre criteri condivisibili o replicabili: è una percezione, non una specifica.
In ambito audiovisivo, ad esempio, un softbox, usato in fotografia, ha caratteristiche misurabili: direzione, diffusione, rapporto di contrasto.
Dire soft glam non implica alcun parametro.
È qui che il linguaggio si annulla, e quindi diventa disfunzionale: più forma che contenuto, più effetto che significato.
Costruire un linguaggio con più sostanza
Non si tratta di demonizzare la parola soft, può avere senso descrittivo se contestualizzata bene, ma di non usarla come alibi.
Nel make-up e nella formazione visiva, serve ridare peso alle parole, distinguere le impressioni dagli strumenti, e restituire ai linguaggi estetici la possibilità di essere analizzati, non solo mostrati.
Oggi ogni elemento del trucco sembra dover essere incasellato in una formula: un rossetto rosso diventa christmas glam makeup o Valentine glam look, quattro glitter sullo zigomo bastano per parlare di glam super glowing.
Ma questa mania di etichettare ogni effetto rischia di banalizzare il processo e svuotare il linguaggio tecnico.
Ai formatori, in particolare, va chiesto uno sforzo in più: non fermarsi alla superficie delle parole, ma guidare oltre, va ricordato: non è sull’etichetta che si costruisce la competenza.
Dire soft glam non basta.
Parole leggere, pensieri pesanti
Soft non è un errore linguistico: è una scelta di comodo.
Serve a smussare i contorni, a evitare definizioni nette, a rendere il trucco un’idea indistinta più che una costruzione concreta.
Ma non tutto ha bisogno di essere semplificato.
A volte, nominare con precisione è un atto di rispetto per chi guarda, per chi apprende, e per chi lavora davvero con l’immagine.
Se domandassi a uno studente che ha ricevuto una formazione basata su contenuti a bassa definizione, permeati da un lessico suggestivo ma privo di criteri tecnici, “In cosa si differenzia un soft glam da un nude look?”, probabilmente lo metterei in difficoltà.
Cosa risponderebbe?
Probabilmente esitazione, sguardi incerti, parole che girano intorno a un’estetica vaga.
Ed è proprio lì che si annida il pressappochismo.
Entrambi i termini si muovono in una zona linguistica ambigua: evocano un’immagine, ma non la definiscono.
Il nude look, pur restando generico, suggerisce almeno un intento preciso come una resa naturale, mimetica, priva di evidenze. Qualcosa che, per intuizione, può essere raccontato anche senza troppi strumenti.
Il soft glam, invece, resta sospeso.
Il trucco glam che rispecchia lo stile contemporaneo cambia continuamente, alimentato ogni giorno dai beauty content che lanciano nuove versioni di glam. Ma se davanti a glam mettiamo soft, la sostanza non cambia: soft glam può essere qualsiasi cosa, purché sia “soft”. Un termine così vago da rischiare di svuotare di significato anche un concetto già ampio e variegato.
Non ha una struttura, non ha una codifica, non ha nemmeno un riferimento condiviso.
E nel momento in cui si chiede di spiegarlo, ci si accorge che la parola non insegna nulla: anzi, crea imbarazzo.
È qui che si misura la responsabilità del linguaggio tecnico, quando smette di servire chi apprende, e comincia a disorientarlo.
E se un docente vi ha descritto con sicurezza come si realizza un soft glam, sappiate che ha semplicemente deciso di inventarselo a modo suo. Perché una grammatica del soft glam, a oggi, non esiste.
L’unico elemento ricorrente e nemmeno garantito, sembra essere un basso contrasto cromatico. Eppure, ho visto soft glam con eyeliner marcati e ciglia finte, altri con labbra bordate di marrone e riempite di gloss, altri ancora con ombretti neri che partivano dall'angolo esterno dell'occhio fino ad arrivare alle tempie.
Sorrido all’idea di un docente, apparentemente prestigioso, mentre improvvisa un’estetica che non ha regole, fingendo che ne abbia.
"Ci sono termini che, nel make-up professionale, smettono di essere errori: diventano radiografie dell'incompetenza."


