GLOSSARIO DISFUNSIONALE. "Difetti" e "imperfezioni"
- carlabelloni

- 10 giu
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 10 lug

Nel mondo della bellezza e in particolare nella formazione professionale legata al make-up, l’uso di termini come “difetti” o “imperfezioni” non è soltanto anacronistico: è dannoso.
Non si tratta di un vezzo linguistico, né di una semplice questione di politicamente corretto.
È una responsabilità etica e psicologica che chi lavora sul volto degli altri come truccatori, estetisti, docenti di trucco non possono ignorare. Soprattutto quando queste parole vengono pronunciate in modo automatico, inconsapevole, senza valutare l’impatto emotivo che possono avere su chi le riceve.
Rivolgersi a una persona dicendo che il suo viso presenta dei “difetti” è una violazione sottile ma profonda.
Non stiamo più parlando di estetica, ma di identità.
Il volto non è una superficie neutra su cui cancellare errori: è un territorio intimo, biografico, sensibile.
Parlare di “difetti” in presenza della persona che si sta truccando significa attivare insicurezze, far scattare meccanismi di confronto e autosvalutazione. Significa, consapevolmente o meno, affermare che esiste un modello a cui bisogna aderire e che quella persona, così com’è, non è “abbastanza”.
Ma chi stabilisce cosa sia perfetto? E da quale punto di vista?
Se la cosiddetta imperfezione è parte del volto reale, concreto, umano di una persona, in che modo può essere considerata qualcosa da “nascondere”?
Il rischio è quello di continuare a perpetuare un’idea di bellezza normativa, esclusiva, che disumanizza anziché valorizzare.
Nel linguaggio comune, dai post nei social alla vendita nei beauty store, questi termini sono ovunque.
“Questo correttore copre le imperfezioni”, “questo fondotinta cancella i difetti della pelle”.
Ma la pelle non ha difetti: ha caratteristiche come segni, rilievi, pori, macchie, discromie.
Ha vissuto.
Ha storia.
Usare parole come “particolarità” o “caratteri del volto” non è solo una scelta semantica: è un modo per restituire rispetto e libertà.
Una persona, anche senza trucco, deve potersi sentire adeguata. Non migliorabile, non "riparabile". Adeguata così com'è.
Un docente ha il dovere di educare a questa sensibilità.
Le parole non sono strumenti neutri, sono atti, spesso irreversibili, che lasciano un segno.
Un’insegnante che definisce la pelle “imperfetta” non sta formando: sta svalutando.
Un professionista che, davanti a una cliente, elenca i “difetti” da correggere sta esercitando un abuso di potere, per quanto involontario.
Sui social, questo tipo di comunicazione è diventata quasi una lingua madre: insultare, ironizzare, evidenziare ciò che non funziona nel volto o nel corpo degli altri. Lo si fa con leggerezza, lo si consuma come intrattenimento.
Ma i negozi e le accademie non possono permettersi lo stesso linguaggio.
Non possono permettersi la stessa superficialità.
La professionalità passa anche e soprattutto dal modo in cui si parla alle persone.
Una terminologia attenta non è solo una forma di rispetto: è un atto formativo, relazionale, educativo. È una dichiarazione di intenti: “Non sei sbagliata, non hai nulla da correggere, hai solo una storia da raccontare e io ti aiuto a farlo, se lo desideri, anche attraverso il trucco.”
Ecco cosa dovrebbe insegnare un docente.
Ecco cosa dovrebbe trasmettere un professionista.
Non il culto dell’omologazione, ma l’arte dell’ascolto.
Non la caccia all’imperfezione, ma la valorizzazione dell’autenticità.
Perché il vero cambiamento nella bellezza parte dalle parole e alcune, semplicemente, è ora di lasciarle andare.
Siamo arrivati a un punto tale che le persone, bombardate da messaggi svalutanti, sono così abituate all’insulto da non riconoscerlo più.
La normalizzazione della derisione, del giudizio, della classificazione estetica ha anestetizzato la sensibilità collettiva.
Ma questo non può e non deve essere accettabile in un contesto professionale.
Ogni volta che sento un truccatore, un docente, un consulente o un commesso parlare di “difetti” o “imperfezioni”, mi è chiaro il livello culturale e umano della persona che ho davanti. Un livello basso, che non si misura con la capacità tecnica o di vendita, ma con la consapevolezza di cosa si trasmette attraverso le parole.
La parola giusta, oggi più che mai, è particolarità.
Perché è proprio quella particolarità, un segno, una discromia, una forma, una grana della pelle a rendere un volto riconoscibile, vero, unico.
È la particolarità a creare identità, a distinguere, a raccontare e non è un caso se anche la comunicazione nella moda, una delle industrie storicamente più severe sul piano estetico, ha iniziato a cambiare prospettiva. Oggi le campagne più potenti non puntano sull’omologazione, ma su ciò che prima veniva nascosto: uno strabismo, una cicatrice, un naso marcato, una pelle con vitiligine. Perché hanno compreso che la particolarità è linguaggio: comunica, afferma, dà forza e significato all'estetica.
Chi lavora nella bellezza ha una scelta chiara da fare: continuare a usare un vocabolario che mortifica oppure contribuire, con consapevolezza, a costruire un linguaggio che eleva.
Non è questione di stile.
È questione di responsabilità.


