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DIETRO IL CLAIM: istruzioni per l'etichetta

  • Immagine del redattore: carlabelloni
    carlabelloni
  • 3 apr
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 23 giu


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C’è una cosa che mi colpisce sempre più spesso quando si parla di make-up: la necessità di etichettare ogni cosa.

Da professionista del settore, non posso restare in silenzio.

Sempre più spesso vedo accademie, corsi e centri di formazione accogliere etichette nate dal marketing come se fossero vere definizioni tecniche.

Ma non lo sono.

Si tratta di claim: affermazioni promozionali usate per rendere un prodotto più desiderabile, immediato, vendibile. Non spiegano un processo, non definiscono una tecnica, non aggiungono contenuto.

Sono formule pensate per il mercato, non per la didattica.

Eppure oggi entrano nei programmi formativi come se avessero un valore professionale, ma sono del tutto fuori contesto. Non significano niente: non descrivono un metodo, non offrono criteri tecnici, non aiutano a costruire competenze. Sono titoli vuoti, spesso nati da trend effimeri, che rischiano di appiattire il linguaggio e impoverire la formazione.

Per questo ho deciso di aprire una rubrica: “DIENTRO IL CLAIM” nasce per analizzare queste etichette, ricollocarle nel loro contesto e ribadire che il make-up, quello vero, ha bisogno di linguaggio, non di slogan.

Ogni trucco ha un nome, un tono, un titolo, meglio se breve, orecchiabile e pronto per diventare virale. Highlighters makeup, soft glam, clean look, boyfriend blush, latte make-up.

Non conta più il processo, ma come venderlo.

Questa tendenza non nasce dal caso: è il risultato di una dinamica precisa, in cui l’influencer ha bisogno di rendere riconoscibile il proprio stile per aumentare visibilità, e il prodotto, legato a quel risultato, deve diventare desiderabile, acquistabile, replicabile.

Funziona. E non si discute che sia una macchina efficace.

Ma fermiamoci un attimo.

Chi insegna make-up, chi lo studia, chi lavora ogni giorno sul volto di qualcun altro, può davvero piegarsi a questa semplificazione?

Possiamo davvero ridurre tutto a una formula da impacchettare?

Io credo di no.

E credo sia urgente cominciare a dirlo con chiarezza.

Parliamo di una pratica che nasce e si giustifica, nel contesto dei beauty creator, dove ogni look deve essere impacchettato in una parola chiave capace di distinguersi nel flusso algoritmico dei social.

Un nome, una firma, un filtro.

Non è un mistero: l’influencer conia un’etichetta per il suo trucco, la lega a un determinato prodotto, e quella formula, ripetibile, replicabile, vendibile, alimenta la sua visibilità tanto quanto le vendite del brand associato.

Questa è la giostra, e gira così da quando è nato il content creator nel beauty.

Non è una critica sterile, sia chiaro. È un’osservazione.

Questa attitudine ha una sua logica nel mondo dell’intrattenimento digitale, dove tutto dev’essere semplificato e seducente.

Ma quello su cui vorrei farvi riflettere è che il make-up, come linguaggio creativo e professionale, non ha mai avuto bisogno di etichette. Al massimo, ha conosciuto stili, correnti, interpretazioni, ma mai slogan incollati su ogni singolo trucco.

Chi ha studiato make-up, chi insegna o lavora nel settore, dovrebbe sapere che "soft glam" non dice nulla. È un titolo, non un’analisi. È uno specchietto per visualizzazioni, non una definizione tecnico-estetica.

Eppure oggi ci ritroviamo con una serie infinita di etichette che non descrivono, ma riducono.

Basta guardare ai grandi truccatori internazionali: quelli che lavorano con le star globali, che creano immagini iconiche per videoclip, campagne, eventi o tour.

Nessuno di loro “etichetta” i propri make-up.

La truccatrice di Beyoncé, Francesca Tolot, non definisce i suoi lavori con un hashtag: ogni trucco è la manifestazione visiva di una visione artistica condivisa, pensata per dialogare con una musica, un corpo in movimento, un messaggio.

Le etichette, al contrario, servono solo a vendere. Sono il riflesso di un marketing consumistico che appiattisce ogni idea in nome della performance algoritmica. E allora bisogna porsi una domanda: vogliamo davvero che il nostro mestiere si adegui a questa logica?

Un formatore, un professionista del settore, dovrebbe prendere le distanze da tutto questo.

Non con disprezzo, ma con lucidità. Perché se tutto diventa glow, grunge, clean girl o vampire skin, allora niente è davvero pensato. Solo replicato.

E allora è proprio ai professionisti, e soprattutto ai formatori, che voglio rivolgermi.

Perché è qui che si gioca la vera partita. Chi insegna make-up oggi, nelle accademie, nei corsi professionali, nei workshop, ha una responsabilità enorme. Non solo trasmettere tecnica, ma custodire un linguaggio, una visione, una profondità culturale che rischiano di essere dissolti sotto la superficie scintillante dei trend da venti secondi.

Piegarsi al linguaggio delle etichette significa fare un passo indietro rispetto a tutto ciò che rende questo mestiere una disciplina tecnica, complessa e strutturata. Non si può svuotare il lavoro di studio, di ricerca e di costruzione del senso per rincorrere l’algoritmo. Non si può insegnare agli studenti a creare make-up “Trendy” dimenticando cosa c’è dietro una scelta morfologica, una lettura visiva del volto, un equilibrio tra materiali, colore, luci e contesto.

Perché il make-up professionale richiede metodo, linguaggio, precisione, adattabilità.

Richiede consapevolezza visiva, padronanza tecnica e capacità di giudizio.

Richiede il coraggio di sottrarsi, quando serve, alla logica semplificata dei contenuti veloci, che promettono risultati immediati ignorando i processi che li rendono realizzabili.

Il rischio non è solo l'appiattimento. È l’erosione delle fondamenta della nostra professione.

Perché se accettiamo di formare figure che sanno solo riconoscere un look etichettato, e non le competenze che portano alla sua costruzione, allora stiamo annullando lo spessore tecnico e culturale che distingue un operatore formato da chi improvvisa. Un trucco non è “soft glam”: è il risultato di una sequenza di valutazioni. E ogni valutazione implica un pensiero, non un nome.

Un formatore dovrebbe essere guida, non specchio. Non può riflettere passivamente i trend del momento. Deve saper creare uno spazio dove si ragiona, si sperimenta, si osserva. Solo così possono nascere professionisti consapevoli, capaci di leggere un volto e rispondere con competenza, non con imitazione.

Se tutto diventa spettacolo, allora dove si colloca la formazione vera?

Quale spazio resta per chi ha studiato, se la priorità diventa la replicabilità del look più cliccato?

Ci stiamo consegnando a un sistema che ci semplifica, ci confonde, ci assorbe. E lo stiamo facendo con leggerezza, mentre dovremmo essere i primi a custodire le basi: la tecnica, il ragionamento, la cultura dell’immagine costruita, non solo mostrata.

Sia chiaro: il make-up estetico è e resta una componente fondamentale del nostro lavoro. Non è questo il punto in discussione. Lo stile, l’impatto visivo, l’attualità delle forme e delle consistenze, fanno parte del nostro linguaggio e vanno abbracciati, studiati, compresi. Un buon formatore non rigetta il presente: lo attraversa con criterio.

Il problema nasce quando lo stile viene ridotto a slogan, quando i trend si impongono come formule da replicare senza che se ne spieghi il contesto, l’origine e l’evoluzione.

Le tendenze non nascono dal caso.

I brand le costruiscono con nuovi prodotti, nuove formule, nuove strategie di comunicazione. Il mercato guida, detta, suggerisce.

Ed è qui che entra in gioco la figura del docente.

Un formatore professionista non si limita a insegnare una tecnica: traduce ciò che si manifesta nel settore. Offre chiavi di lettura. Mostra cosa c’è dietro il prodotto, dietro un effetto, dietro una scelta stilistica che si impone. E forma allievi capaci di interpretare ciò che verrà anche dopo il corso, perché ha insegnato loro il senso, non solo il gesto.

Questo è il momento di tenere il punto.

Di ricordare che un linguaggio tecnico non si esaurisce in una categoria virale.

Che etichettare non equivale a spiegare. E che la nostra responsabilità, oggi più che mai, è quella di dare profondità al visibile, restituendo al make-up il suo statuto di linguaggio professionale e tecnico, non di fenomeno effimero.

Solo così potremo lasciare alle nuove generazioni di truccatori qualcosa che duri più di un trend: una visione.

In questo blog, continuerò a ripeterlo fino allo sfinimento, diventare truccatori non significa semplicemente saper replicare un look. Significa entrare in un linguaggio tecnico, in una disciplina con regole, strumenti, studio e ricerca continua. Il make-up, quello vero, ha una grammatica, una struttura, delle competenze misurabili. Chi insegna ha il dovere di trasmetterle.

Le accademie serie dovrebbero circondarsi di docenti altrettanto seri, con una visione chiara, che sappiano indicare la linea che separa un professionista da un creatore di contenuti.

Perché il paradosso, purtroppo, accade solo nel nostro settore.

È come se domani, dopo aver visto due puntate di Forum, qualcuno si presentasse in tribunale per esercitare la professione di avvocato.

Fa sorridere, no?

Nel make-up succede ogni giorno.

Solo che non fa ridere nessuno.

Perché il nostro lavoro è stato spogliato, svilito, sottovalutato al punto da non fare più effetto.

Sta a noi, formatori, professionisti, accademie, rimettere ordine.

Non si tratta di ignorare i trend, ma di insegnare a riconoscere dove finisce il marketing e dove inizia la tecnica e la "lettura".

Dare strumenti per distinguere un’operazione commerciale da una competenza.

Perché un professionista, a differenza di un creator, non si limita a replicare: comprende, sceglie, struttura.

È questo che completa una formazione.

È questo che definisce una professione.

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