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DOCERE. Didattica disfunzionale: quando a insegnare è un vuoto non affrontato.

  • Immagine del redattore: carlabelloni
    carlabelloni
  • 4 feb
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 20 ago

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Nel contesto formativo, la figura del docente è spesso idealizzata come guida competente, lucida, neutrale, capace di offrire strumenti e saperi in maniera metodica e orientata allo sviluppo dell’allievo. Tuttavia, la realtà della didattica quella viva, quotidiana, complessa, mette frequentemente in scena dinamiche ben più sfumate, in cui la componente personale dell’insegnante non solo emerge, ma può influenzare in modo sostanziale l’intero processo formativo.

È in questo contesto che vale la pena porsi una domanda scomoda ma necessaria: cosa accade quando l’insegnamento diventa il luogo dove un docente cerca, anche inconsciamente, di colmare propri vuoti personali?


Il docente come essere umano (non ancora risolto)

È fondamentale premettere che ogni docente è, prima di tutto, un essere umano. Con una propria storia, con esperienze, vulnerabilità, ferite aperte o mal cicatrizzate. Nessuna abilitazione, aggiornamento o competenza tecnica può cancellare questo dato di realtà. Ma quando queste dinamiche interiori non vengono riconosciute, analizzate e integrate, il rischio è che si infiltrino nella pratica didattica, alterandone in modo significativo l'efficacia e l'autenticità.

Alcuni esempi ricorrenti: il docente che ha un bisogno profondo di sentirsi amato o ammirato, e cerca quindi negli allievi conferme costanti, gratitudine, dipendenza affettiva. Oppure chi, spinto da un ego eccessivamente centrale, trasforma ogni lezione in un palco dove recitare se stesso più che formare. Ancora, chi ha bisogno di controllo e tende a iper-strutturare la didattica, non per reale progettazione metodologica, ma per timore del caos, della libertà, dell’imprevisto. In tutti questi casi, ciò che muove l’azione formativa non è più la costruzione di senso per l’allievo, ma la gestione, spesso inconsapevole, di un proprio vuoto interno.


Il travestimento della cura: quando l’attenzione è egocentrica

Una delle derive più insidiose è quella della "falsa cura". Può apparire come generosità, come una presenza costante, come una grande disponibilità verso l’allievo. Ma sotto questa maschera si cela, a volte, un bisogno personale di sentirsi indispensabili, utili, riconosciuti. In questi casi, l’attenzione verso l’allievo non è più autentico accompagnamento, ma uno strumento attraverso cui l’insegnante gratifica se stesso.

Paradossalmente, questo atteggiamento può generare dipendenze disfunzionali: allievi che si sentono obbligati a “ricambiare” l’attenzione ricevuta, che imparano a compiacere per ottenere supporto, che sviluppano un senso di colpa nel momento in cui vogliono distaccarsi. L’insegnamento, da spazio emancipante, si trasforma così in un meccanismo di legame emotivo squilibrato, centrato sul bisogno del docente più che sull’autonomia dell’allievo.


Il ruolo dell’autoconsapevolezza nella formazione

Ogni didattica autentica dovrebbe partire da un presupposto: il lavoro su di sé. Non si tratta di pretendere docenti perfetti, immuni da fragilità. Al contrario, si tratta di riconoscere quanto la propria struttura interiore influisca sul modo in cui si trasmette sapere. Lavorare sulla consapevolezza delle proprie motivazioni profonde, delle proprie paure, del proprio bisogno di riconoscimento è parte integrante e irrinunciabile del mestiere dell’educare.

In questo senso, una formazione continua del docente dovrebbe includere momenti di analisi critica e riflessione personale, non solo tecniche o aggiornamenti di contenuto. Sviluppare uno sguardo introspettivo significa rendere l’azione formativa più libera, più responsabile, meno manipolatoria. Significa imparare a distinguere tra ciò che facciamo per l’allievo e ciò che facciamo per colmare un bisogno nostro, non elaborato.


Le conseguenze pedagogiche della mancata integrazione

Quando il bisogno personale si impone sulla funzione educativa, le conseguenze non sono mai neutre. Gli allievi, soprattutto se giovani, recepiscono inconsapevolmente queste dinamiche e vi si adattano. Possono interiorizzare messaggi disfunzionali: che l’apprendimento è legato al compiacere l’adulto; che il sapere è subordinato all’affetto; che il successo passa dal legame personale più che dall’impegno reale. Tutto questo mina la loro autonomia critica e la fiducia nelle proprie capacità.

Inoltre, una didattica guidata da dinamiche personali irrisolte tende a perdere coerenza, chiarezza e struttura. Le scelte metodologiche non sono frutto di una progettazione ponderata, ma risposte emotive a bisogni soggettivi. Così, l’insegnamento perde in oggettività, in efficacia e in giustizia.


Invito a riconoscere

Riconoscere che anche l’insegnante ha un mondo interiore che può condizionare l’insegnamento non è una condanna, ma un invito.

Un invito alla responsabilità, all’onestà, alla maturazione continua.

L’aula non può diventare lo spazio in cui si cerca una riparazione personale. Può, invece, essere il luogo in cui, attraverso la consapevolezza e l’etica, si sceglie di mettere a disposizione la propria umanità senza abusarne.

La vera professionalità non sta nell’essere immuni da bisogni, ma nel saperli guardare in faccia, per evitare che diventino il motore nascosto e potenzialmente dannoso del nostro agire educativo.


Considerazioni personali

Con oltre 28.000 ore di esperienza didattica alle spalle, ho imparato sul campo, nei momenti di successo ma soprattutto nelle frizioni quotidiane, che un buon programma non basta.

Quando ho elaborato il mio metodo CARATTERE X, sapevo che non sarebbe stato sufficiente fornire contenuti strutturati, obiettivi formativi chiari e tecniche di insegnamento efficaci.

Il cuore di un metodo realmente funzionale risiede nella qualità della relazione educativa e nella consapevolezza interiore di chi lo conduce.

Nel mio percorso professionale, ho fatto della messa in discussione uno strumento di crescita.

Non ho mai considerato la cattedra come un podio, ma come un osservatorio privilegiato da cui imparare.

Attraverso anni di studio, approfondimento pedagogico e riflessione psicologica, ho compreso quanto profondamente una condizione interiore irrisolta del docente possa alterare l’esito di un percorso formativo, anche quando apparentemente ben costruito.

La psiche di chi insegna non è un elemento neutro: è parte attiva del processo di apprendimento dell’allievo.

Un bisogno personale non elaborato può filtrare in ogni parola, in ogni feedback, in ogni dinamica di gruppo, a volte in modo sottile, altre in modo clamoroso.

Conosco questa complessità, l’ho abitata e attraversata.

So quanto sia delicato il confine tra presenza e invasione, tra supporto e dipendenza, tra guida e protagonismo.

Nel corso degli anni non ho ricoperto solo il ruolo di docente, ma anche quello di coordinatrice didattica, che mi ha permesso di osservare dall’interno le dinamiche tra allievi e docenti. In quel contesto ho avuto modo di cogliere, con attenzione e discrezione, gli effetti concreti e profondi che la personalità di un docente può esercitare sugli allievi. In più di un’occasione ho notato condizionamenti marcati: allievi che si adattavano a richieste implicite, che interiorizzavano tensioni, che sviluppavano insicurezze o dipendenze affettive. Il mio intervento, sempre volto a ristabilire equilibrio, restituendo all’allievo la sua autonomia e dignità mi ha fatto comprendere con lucidità quanto l’instabilità psicologica o la non consapevolezza di un docente possano alterare in modo profondo il clima educativo.

Ed è proprio per questo che nel metodo CARATTERE X ho voluto includere una sezione specificamente rivolta ai docenti, in cui non ci si limita a trasmettere contenuti, ma si lavora sul come trasmetterli, come relazionarsi, come sostenere l’autonomia dell’allievo senza esercitare pressioni morali o psicologiche implicite.

Una sezione dedicata in cui si affronta non solo l’aspetto tecnico della trasmissione didattica, ma anche quello relazionale, emotivo e psicologico. Lì si chiarisce come sia necessario non solo “insegnare bene”, ma anche saper stare in relazione in modo sano, per permettere agli allievi di svilupparsi senza condizionamenti.

Un buon metodo didattico, infatti, non si limita a offrire strumenti: forma prima di tutto le coscienze di chi insegna, perché nessuna tecnica potrà mai compensare gli effetti negativi di una personalità non elaborata. Insegnare è un atto di responsabilità profonda, che inizia con il riconoscimento dei propri limiti e continua nel rispetto del percorso unico di ogni allievo.

Un percorso che va protetto, non piegato.

Ascoltato, non interpretato.

Accompagnato, non invaso.

Il docente non è solo un trasmettitore di nozioni, ma un facilitatore di sviluppo.

Perché questo avvenga, è necessario che sappia riconoscere le proprie dinamiche interiori, tenerle sotto osservazione e non interporle nel rapporto educativo. Solo così potrà davvero permettere all’allievo di fiorire secondo le proprie potenzialità, in un contesto libero, critico, rispettoso.

È questa, oggi, la responsabilità più alta della formazione: creare spazi in cui il sapere non serve a colmare chi insegna, ma a liberare chi apprende.


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