DOCERE. "Orgoglioso di voi": quando il protagonismo del docente invade lo spazio dell’allievo.
- carlabelloni

- 29 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 11 giu

Ci sono frasi che passano inosservate, eppure modellano il modo in cui si costruiscono le relazioni formative.
Una di queste è: "Sono orgogliosa/o di voi."
Appare empatica, accogliente, generosa.
Ma se la si guarda con attenzione, è una delle forme più sottili di protagonismo del docente.
Chi insegna, in particolare in ambiti come il make-up dove l’identità professionale passa anche attraverso la riconoscibilità estetica, rischia spesso di mettere in scena il proprio ruolo invece di esercitarlo con lucidità.
L’orgoglio, in questo contesto, diventa un’emozione ingombrante. Perché invece di valorizzare il lavoro degli allievi, lo assorbe.
Dire "sono orgogliosa/o di voi" significa collocare sé stessi al centro del risultato altrui.
È una forma affettiva di possesso. Non è il riconoscimento di un traguardo, ma il tentativo, conscio o inconscio, di rientrare nella narrazione di quel traguardo come co-protagonista. È un modo per dire: se siete arrivati qui, è anche merito mio, ma lo si dice sotto forma di sentimento. E il sentimento, in ambito educativo, può diventare una strategia inconsapevole di controllo.
L’orgoglio come zona d’ombra della didattica
Tra tutte le espressioni apparentemente motivazionali, questa è forse la più carica di ambiguità.
Perché il docente dovrebbe essere orgoglioso?
Un buon lavoro da parte degli allievi significa che il percorso formativo ha funzionato. Che il docente ha fatto semplicemente ciò che doveva: creare condizioni, stimolare visione critica, trasmettere strumenti. Nulla per cui essere “orgoglioso”. Piuttosto, soddisfatto del processo, presente nel risultato, ma distante quanto basta da non sovrapporsi.
Scrivere “orgogliosa/o di voi” è come mettere la propria firma emotiva su qualcosa che non ci appartiene più.
È un gesto che spesso si compie sui social, nelle stories, nelle caption: pubblicare i lavori degli allievi e scrivere sotto “sono fiera/o, sono orgogliosa/o”. Ma chi guarda, chi legge, chi sente, capta molto di più. Capta che c’è un adulto che ha bisogno di ribadire il proprio ruolo anche nel momento in cui dovrebbe lasciare parlare l’opera.
Capta che il centro della scena non è mai davvero l’allievo.
Non è solo un tema linguistico.
È una postura.
Un docente che ha bisogno di dichiararsi orgoglioso ha ancora un conto aperto con il proprio valore. Cerca nello sguardo dell’allievo un riflesso di sé e questo, alla lunga, inquina la relazione educativa.
L’orgoglio, se espresso dal docente verso l’allievo, non è neutralità è un gesto che ancora una volta dice: io ci sono, io sento, io mi riconosco in ciò che fai. Eppure, l’allievo non dovrebbe sentirsi obbligato a rappresentare il proprio insegnante. Non dovrebbe portarne il peso, né il nome.
Ma c’è di più.
Questa dichiarazione di orgoglio, oltre a spostare l’attenzione sull’io del docente, manca di rispetto anche al lavoro dei colleghi.
Il raggiungimento di capacità tecniche, la maturazione di scelte estetiche e la consapevolezza operativa che si leggono nel lavoro di un allievo non sono mai il frutto di un solo incontro.
Sono il risultato di un intero percorso didattico, dove ogni docente ha lasciato qualcosa: una correzione, una critica, un’intuizione. Attribuirsi pubblicamente il successo dell’allievo è una forma di appropriazione indebita, anche nei confronti di chi ha contribuito in modo silenzioso e costante.
Educare non è una gara a chi ottiene più riconoscimenti tramite l’altrui lavoro è, al contrario, la capacità di stare nel processo senza pretendere visibilità sul risultato. Questo vale tanto per gli allievi, quanto per i colleghi. Chi insegna dovrebbe ricordare che l’apprendimento è un ecosistema: interdipendente, complesso, mai univoco.
Il docente non deve essere al centro
La vera presenza educativa è discreta.
Non è assente, ma è decentrata.
Un docente solido è colui che osserva i risultati dell’allievo e non li vive come conferma di sé. È chi ha saputo trasmettere strumenti, metodo, spirito critico non chi pretende una quota emotiva del successo altrui.
Essere "orgogliosa/o di voi" è una frase che dice più di quanto prometta.
Dice che non si riesce a stare ai margini senza sentirsi inutili.
Dice che si ha ancora bisogno di validazione, anche se arriva da allievi ventenni che stanno costruendo ora la loro identità.
La maturità didattica, invece, passa dal silenzio.
Dall’osservare e fare un passo indietro.
Dal saper dire: bravi voi, senza doverci essere dentro, senza infilare il proprio “io” come se fosse indispensabile.
Un docente educa quando riesce a non mettersi in mezzo tra l’allievo e il suo risultato.
E se proprio deve dire qualcosa, può dire:
“Avete fatto un ottimo lavoro.”
“Vi siete meritati questo traguardo.”
“Ho visto il vostro impegno.”
Frasi che lasciano lo spazio dell’altro intatto.
Frasi che non cercano di essere amate, ma di essere giuste.


