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DOCERE. "Non sono il tuo tesoro": l'importanza di chiamare per nome in ambito didattico.

  • Immagine del redattore: carlabelloni
    carlabelloni
  • 11 gen
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 20 ago

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C’è un momento preciso, in apparenza insignificante, che segna profondamente il confine tra una relazione educativa autentica e una relazione didattica superficiale: è quando un docente, invece di rivolgersi all’allieva con il suo nome, la chiama “tesoro”.

Un gesto che potrebbe sembrare affettuoso, inclusivo, persino tenero. Ma sotto quella patina zuccherosa si cela spesso l’opposto: un distacco emotivo e cognitivo, un disinvestimento relazionale.

Perché usare appellativi generici al posto del nome proprio non è solo una scorciatoia linguistica: è un atto che dice, in modo silenzioso ma chiarissimo, “non ho ritenuto importante ricordare chi sei”.


Il nome come riconoscimento psicologico

Dal punto di vista psicologico, il nome proprio rappresenta il primo elemento identitario con cui un individuo entra in relazione con il mondo. Sentirsi chiamare per nome attiva nell’essere umano un bisogno fondamentale: il bisogno di riconoscimento. Si tratta di una forma di validazione personale che risale all’infanzia e che permane per tutta la vita. Come scrive lo psicologo Carl Rogers, la persona si sviluppa in un clima in cui è riconosciuta nella sua unicità e non ridotta a una funzione o a un’etichetta.

Il nome è un ponte: quando lo pronunciamo, riconosciamo l’altro nella sua individualità irripetibile. Quando lo evitiamo, quel ponte si spezza e dietro a quell’“amore”, “tesoro”, “cara”, c’è spesso non un eccesso di calore, ma una povertà relazionale. Un’incapacità o una noncuranza a investire davvero nell’altro.


Didattica o assistenzialismo?

Nell’ambito dell’insegnamento, questo atteggiamento rischia di scivolare in una forma mascherata di assistenzialismo: un modo di porsi che simula cura, ma che in realtà infantilizza. Usare appellativi generici significa trattare gli allievi come un gruppo indistinto, in una dinamica in cui il docente mantiene il potere e la distanza, pur indossando un tono pseudo-affettivo.

L’implicito pedagogico è chiaro: non sei importante abbastanza perché io investa tempo ed energia nel sapere chi sei. La conseguenza è una relazione didattica sbilanciata, in cui l’allievo viene privato della possibilità di sentirsi visto. E non c’è apprendimento profondo dove non c’è relazione significativa.


L’illusione della scusa: “sono troppi allievi”

Un’obiezione comune è la quantità: “ne ho troppi da ricordare”.

Ma qui entra in gioco la differenza tra il ruolo e la responsabilità. Certo, non si possono memorizzare cento nomi in un giorno. Ma esiste una distanza abissale tra il non sapere ancora un nome e il non tentare nemmeno di impararlo.

Chiamare per nome è un investimento. È tempo che si dedica non solo a una persona, ma all’ambiente stesso della classe, perché crea una micro-comunità in cui ciascuno si sente legittimato a esistere, a partecipare, a esporsi.


Il nome come primo atto di empatia

Diversi studi nell’ambito delle neuroscienze affermano che sentire il proprio nome attiva aree cerebrali legate all’autopercezione e alla fiducia. È un innesco relazionale che può abbassare i livelli di ansia e stimolare l’apertura cognitiva, elementi essenziali per un apprendimento efficace.

Inoltre, chiamare per nome sviluppa nel docente una forma di presenza mentale che contrasta la tentazione dell’automatismo. In un’epoca in cui la didattica rischia di diventare mera erogazione di contenuti, ricordare il nome di un allievo è un atto di resistenza umana.


La differenza tra educare e somministrare

Insegnare non è un atto meccanico.

È una relazione e in ogni relazione la prima forma di contatto è il nome.

Quando un docente lo dimentica o peggio, lo evita, sta dicendo, in fondo, che quella persona non è un soggetto, ma un numero, un corpo tra altri corpi.

Usare “tesoro” non è sempre una carezza a volte è un guanto morbido che nasconde la mancanza di volontà di vedere davvero chi abbiamo davanti.

Educare, invece, comincia proprio da lì: dal sapere chi è l’altro e chiamarlo per nome.


Nota personale

Quando ero coordinatrice didattica, facevo in modo che i docenti collegassero il volto degli allievi al loro nome. Creavo dei planning con le foto e i nomi degli studenti, suddivisi per corso di appartenenza. In quel periodo coordinavo più di 400 allievi all’anno, eppure ritenevo fondamentale che ogni docente aprisse quel file anche durante la lezione, per familiarizzare con ogni volto, ogni identità.

Era ed è una forma di rispetto.

Un gesto semplice, ma decisivo, che dovrebbe avere sempre la priorità su tutto il resto.

È importante ricordare che un docente distratto non danneggia solo la propria credibilità individuale, ma mina profondamente l’identità stessa dell’istituzione formativa che rappresenta. L’insegnamento non si esaurisce nella trasmissione di contenuti: è una responsabilità complessa che include la qualità della relazione, l’intenzionalità dello sguardo, la cura nel creare un contesto in cui ogni allievo possa sentirsi riconosciuto, legittimato, parte attiva di un sistema. Quando manca questa attenzione, viene meno anche la fiducia nell’apprendimento e con essa, il valore percepito dell’intera accademia. Perché il sapere si costruisce non solo sulla base di ciò che si insegna, ma soprattutto su come ci si sente mentre lo si apprende.

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