DOCERE. “Le mie bimbe”: quando l’affetto diventa controllo
- carlabelloni

- 29 mag
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 22 ago

In un articolo precedente ho analizzato l’uso del pronome mio/mia nel linguaggio formativo, mettendo in luce come dietro un’apparente spontaneità si nascondano spesso dinamiche di possesso, gerarchia e bisogno di riconoscimento.
Questa riflessione trova un ulteriore sviluppo quando si osservano certe espressioni ricorrenti in contesti professionali come i backstage o ambiti didattici: “le mie bimbe/i”, “le mie ragazze/i”, “il mio gruppo di cucciole/i”.
Non si tratta solo di parole affettuose. Si tratta di costruzioni linguistiche che plasmano e condizionano i rapporti tra chi insegna e chi apprende, tra chi guida un gruppo e chi vi partecipa.
L’uso di termini come bimbe/i o ragazze/i non è mai neutro: veicola una visione dell’altro come entità fragile, minore, bisognosa di tutela.
Quando a questa terminologia si unisce il pronome possessivo, il quadro si completa: non solo l’altra è piccola, ma è anche mia.
Appartiene a me.
È sotto il mio sguardo, la mia influenza, la mia narrazione.
Non è solo un vezzeggiativo. È una svalutazione.
Dire bimbe invece di truccatrici non è un dettaglio linguistico è una precisa scelta di rappresentazione. Significa cancellare la professionalità, l’identità tecnica e il ruolo dell’altra persona, per sostituirla con un’immagine infantile, generica, affettuosa ma svilente.
L’espressione “le mie bimbe hanno fatto un ottimo lavoro” non racconta né la qualità del lavoro né chi lo ha svolto. Rende invisibile la figura della truccatrice o truccatore e riduce il suo contributo a un’estensione del docente stesso, come se il valore del suo operato esistesse solo in funzione del legame affettivo con chi la guida.
E questo è ancor più problematico quando a usare queste parole è proprio un docente, ovvero qualcuno che dovrebbe essere incaricato di costruire consapevolezza, responsabilità, identità professionale. Invece di riconoscere l’altra come truccatrice, anche se all’inizio del percorso, la nomina come ragazza, bimba, cucciola, confermandole che per essere vista deve restare piccola e subordinata.
Il linguaggio che nega il ruolo
Un docente che chiama le proprie allieve bimbe non sta solo scegliendo un’espressione tenera, sta implicitamente dicendo che non le riconosce ancora come soggetti professionali.
Il problema non è l’età o il grado di esperienza, ma il fatto che, anche nel momento in cui le allieve lavorano sul campo, anche quando sono nel pieno di un’esperienza formativa attiva e responsabile, continuano a essere nominate come se fossero in uno stato perenne di immaturità.
Questo è svilente!
È un messaggio chiaro: non sei ancora una truccatrice.
Sei ancora mia.
Finché ti muovi sotto la mia ala, rimani una delle mie.
Il risultato è una forma di invisibilità.
Le “bimbe” non firmano il lavoro, non vengono citate per ruolo, non sono identificate per ciò che hanno fatto, ma per quanto sono piaciute a chi le ha guidate.
Così la professionalità non si costruisce. Si compiace.
Il paradosso dell’affetto come controllo
Dietro questa dinamica c’è spesso un paradosso: il docente non vuole svalutare, anzi è convinto di creare un ambiente caldo, familiare, motivante.
Ma un affetto che non riconosce l’altro come soggetto adulto non è affetto, è trattenimento è controllo travestito da attenzione. È un modo per trattenere l’allieva in una posizione comoda per chi insegna, dove non fa paura, non contraddice, non prende spazio autonomo.
In questo schema, chi non accetta di essere chiamata bimba viene spesso percepita come fredda, distante, ingrata. Come se l’unico modo per restare parte del gruppo fosse rinunciare a essere riconosciute per ciò che si è: truccatrici, professioniste in crescita, soggetti pensanti.
Educare è nominare con rispetto
Ritorna la questione fondamentale: come nominiamo chi lavora con noi?
Cosa raccontano, davvero, le parole che scegliamo?
Chi insegna ha una responsabilità che va oltre la tecnica. Il linguaggio che usa diventa modello, cornice, visione del possibile. Continuare a chiamare bimbe o ragazze chi sta affrontando un percorso professionale significa bloccarne lo sviluppo, negarne il ruolo e alimentare una dipendenza affettiva che niente ha a che fare con la crescita.
Forse è arrivato il momento di smettere di trattenere e iniziare a riconoscere.
Dire “truccatrice” anche quando si tratta di una persona in formazione.
Dire “professionista” anche se è giovane.
Lasciare che chi lavora con noi possa essere qualcosa di più di una nostra ragazza o bimba.
Forse il vero segno di autorevolezza, per un docente, è riuscire a dire:
“Non era mia. Era sua. Ed è diventata ciò che doveva essere.”
Ma davvero chiamarle staff truccatori suona così freddo e impersonale?
Riconoscere un ruolo professionale è diventato meno importante che mantenerne uno affettivo e subordinato?


