DOCERE. “La mia allieva”: quando il docente dimentica di essere adulto
- carlabelloni

- 24 mar
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 20 ago

Questo articolo si rivolge a chi insegna. A chi ha scelto o si è trovato nel ruolo di guida, formatore, docente.
Si concentra su un aspetto spesso trascurato, ma fondamentale: il linguaggio.
Le parole che un docente usa non sono mai neutre. Hanno un peso, una direzione, un effetto. Rivelano molto più di quanto si creda. In particolare, ci soffermiamo sull’uso del possessivo “mia/mio” riferito agli allievi, con l’intento di analizzare le implicazioni psicologiche, relazionali ed etiche che questo piccolo pronome può attivare.
Ci sono parole che sembrano innocue e invece segnano un territorio.
Una di queste è “mia”.
“Mia allieva”, “mio allievo”, scritto sotto un lavoro pubblicato, un esercizio ben riuscito, un’esibizione tecnica o estetica che il docente condivide sui social come se fosse, in qualche modo, un’estensione del proprio operato.
Ma quel possessivo, così breve e radicato nel linguaggio quotidiano, è un confine che viene valicato. Spesso, chi insegna, non si accorge di quanto sia dannoso usarlo.
Non per malizia, ma per abitudine.
Non per arroganza, ma per insicurezza.
Quel “mio” che suona come un marchio
Dire “mia allieva” non è solo una semplificazione linguistica è una forma di appropriazione.
Significa rivendicare un legame, un ruolo, una posizione gerarchica.
Significa dire, senza dirlo esplicitamente, che quell’allieva lì è frutto mio, è sotto la mia guida, è parte del mio valore come docente.
Ma un allievo non è proprietà.
Non è estensione.
Non è espressione dell’identità del docente.
È una persona in formazione, autonoma, con un percorso complesso e stratificato, che non può e non deve essere ridotto a “mio”.
Spesso, chi usa il “mio” non se ne rende conto.
Lo fa per sentirsi vicino, per esprimere affetto, per dare valore al proprio ruolo.
Ma lo fa anche per colmare un vuoto.
Quel vuoto che avverte chi ha bisogno che l’allievo porti il suo nome addosso.
Chi non si sente visto abbastanza se non attraverso il successo altrui.
Chi non riesce a separarsi emotivamente dal proprio lavoro e cerca conferme attraverso l’identificazione.
Usare quel possessivo non è solo irrispettoso verso l’allievo, ma anche verso l’intera struttura educativa per cui si lavora.
Quando un docente scrive “questa è la mia allieva”, cancella l’apporto degli altri insegnanti, del coordinamento didattico, del metodo condiviso, della pluralità delle esperienze. Quel “mio” è un colpo basso alla coralità della formazione. È come se si dicesse: ciò che vale, ciò che funziona, lo avete visto con me. Ma l’allievo non si forma con un solo sguardo. Si forma nelle differenze, nella fatica, nei contrasti, nel tempo.
Inoltre, il gesto porta con sé una mancanza di rispetto ancora più grave nei confronti dell’accademia di formazione.
Gli allievi non sono proprietà del docente.
Non sono un pubblico conquistato, né un trofeo personale.
Semmai, è l’accademia ad averli accolti, selezionati, orientati, seguiti. È l’accademia che ha costruito il contesto, le condizioni, l’offerta formativa, e che ha permesso a quel docente di operare all’interno di un sistema strutturato.
Quel “mio” è un atto di appropriazione indebita, non solo affettiva ma simbolica.
È una sottrazione di senso e di merito.
Come se l’intero percorso dell’allievo si risolvesse in un singolo incontro, un solo modulo, un unico docente. Ma la formazione vera non è mai un’azione individuale. È una costruzione collettiva. E chi ne fa parte con onestà, non firma da solo ciò che è nato insieme.
Il rispetto che si deve all’allievo
Quando un docente dice “mio allievo”, inconsciamente sta negando qualcosa di fondamentale: l’autonomia dell’altro. Sta riducendo l’individuo a una funzione, a un ruolo in relazione a sé. Ma l’allievo ha diritto a essere nominato per nome, o semplicemente per ciò che ha fatto: “un lavoro eccellente”, “una prova riuscita”, “una scelta interessante”.
Non serve il marchio.
Non serve il possesso.
Serve uno sguardo che libera, non che trattiene. Perché chi insegna ha il dovere etico di lasciare andare, non di afferrare.
E questo vale ancora di più quando si pubblica.
Un social network non è un’aula.
È una piazza.
È il luogo dove si comunica chi si è.
Se un docente, nel suo modo di esporsi, parla sempre in termini di “mia/mio”, sta dicendo che ancora non ha superato il confine tra formazione e protagonismo.
Essere adulti nella relazione educativa
L’autorevolezza di un docente si misura nella capacità di non invadere lo spazio dell’allievo con il proprio ego.
Non serve dire “mia allieva” per sentirsi parte del suo successo.
Serve riconoscerle dignità, individualità, paternità del proprio lavoro.
Essere adulti, in aula e fuori, significa sapere che ogni allievo è solo di se stesso.
Il nostro compito, se siamo davvero docenti, è restituirlo a se stesso più forte, più consapevole, più libero.
Nient’altro.


