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Quando le aziende scelgono la parola “MANIFESTO” moda, marketing o memoria corta?

  • Immagine del redattore: carlabelloni
    carlabelloni
  • 2 feb
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 14 mag


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Vi chiederete perché un blog beauty parli di certi contenuti.

È semplice: vedere accademie di formazione sventolare la parola "manifesto" per raccontare la loro visione è stato sconcertante.

Non si può buttare lì un termine carico di storia, tensione e imposizione solo per sembrare moderni.

Usare le parole senza capirne il peso non è innovazione: è superficialità travestita da cultura.

Negli ultimi anni molte aziende, invece del classico “Chi siamo”, hanno iniziato a inserire una voce più altisonante nei loro siti: "Manifesto".  

Sembra più forte, più moderno, più “cool”.

Ma siamo sicuri che sia una scelta consapevole?  

Oppure è solo l’ennesima moda del marketing?


Una parola importante, non neutra

"Manifesto" è una parola che suona bene, è vero.

Evoca una presa di posizione, un’identità, un atto pubblico.

Ma non è una parola neutra.  

Deriva dal latino manifestus, che significava "palese, evidente", ma nel corso dei secoli ha assunto significati sempre più profondi e, in certi contesti, anche controversi.


Pensiamo a:

- Il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels (1848)

- Il Manifesto Futurista di Marinetti (1909)

- Il tragico Manifesto della razza firmato nel 1938 durante il fascismo italiano


Non ritengo necessario dilungarmi nel descrivere il contenuto di quei manifesti, confidando che molti di voi ne abbiano già una conoscenza, almeno parziale. Mi sono limitata a evocare alcuni di essi, in modo da richiamarne l'essenza.

Quando un’azienda decide di usare questa parola, dovrebbe sapere che porta con sé una storia, una memoria, una responsabilità.

È vero: molte parole e simboli hanno origine antica. Il fascio littorio, per esempio, era un simbolo romano. Ma dopo l’uso massiccio e ideologico fatto dal regime fascista, è difficile oggi pensarlo senza quel riferimento.  

Lo stesso accade per la parola manifesto: può essere stata usata in contesti diversi, ma in Italia porta con sé anche una memoria legata a periodi bui della storia.

Da ricordare che c'è stato nel nostro Paese anche un altro uso, più consapevole e politico, della parola.  

Nel 1969 nasce in Italia il manifesto, scritto in minuscolo, quotidiano fondato da intellettuali di estrema sinistra come Rossana Rossanda e Luigi Pintor.  

Una scelta provocatoria e voluta: il manifesto era una dichiarazione pubblica di dissenso verso il Partito Comunista Italiano, un giornale critico, radicale, indipendente.

In quel caso, usare il termine aveva un senso logico. Era coerente, pensato, radicato in una lotta politica.


Marketing o identità?

Oggi molte strategie comunicative sembrano più costruite per apparire che per essere.  

Spesso si leggono descrizioni pompose, slogan “su misura”, dichiarazioni valoriali che suonano bene ma dicono poco.

Poco tempo fa, leggevo un libro di strategia aziendale che parlava di “integrazione tra aree aziendali”, “evoluzione dei piani secondo il mercato”, e spiegava con precisione la differenza tra manifesto, mission e vision.  

Interessante, ho pensato.  

Poi vado sul sito dell’autore e... sorpresa: la sezione nel suo menù si chiama "Chi siamo".  

Niente “Manifesto”. Solo vecchia scuola. Quella che funziona, forse.

Una scelta che mette in luce la mancanza di coerenza tra teoria e pratica: dopo aver costruito un intero impianto narrativo sulla precisione comunicativa, l’autore stesso si affida a formule convenzionali e prive di identità distintiva proclamata nel libro. Questo paradosso rivela come spesso il linguaggio strategico venga piegato a esigenze di apparente innovazione, perdendo autenticità e credibilità. In fondo, oggi molte strategie sembrano più interessate a impressionare che a costruire un senso reale e solido.


Le parole vanno scelte con cura

Non sto dicendo che usare la parola "manifesto" sia sempre sbagliato. Ma serve consapevolezza.  

Non tutte le aziende hanno qualcosa da “dichiarare” in modo così solenne. E non tutte possono permettersi di usare certi termini come se fossero etichette trendy.

Brand internazionali come Nike, Patagonia o Ben & Jerry’s hanno adottato la sezione “Manifesto” non solo come dichiarazione d’intenti, ma come strumento narrativo per posizionarsi in modo chiaro su temi sociali, ambientali e culturali. In questi casi, il manifesto diventa parte integrante della strategia comunicativa: un ponte tra identità e azione, tra brand e comunità. Tuttavia, mentre nel contesto anglosassone il termine è associato a innovazione, coraggio e visione, in Italia e in gran parte dell’Europa porta ancora il peso storico di epoche ideologiche, segnate da conflitti politici e divisioni profonde. Il risultato è una distanza semantica: là dove il “manifesto” suona come ispirazione, qui può evocare rigidità o retorica. In questo scarto culturale si nasconde anche il rischio che molte aziende adottino formule valoriali più per costruire una maschera comunicativa che per esprimere un reale impegno.

Come persona che crede nei valori dell’antifascismo e della memoria storica, mi chiedo: non sarebbe più onesto chiamare le cose con il loro nome, senza forzature?  

A volte, un semplice "Chi siamo" o “La nostra visione” può essere più autentico di mille “manifesti”.

Nel tentativo di sembrare innovativi, molti si affannano a usare parole altisonanti senza interrogarsi minimamente sul peso che si portano dietro. "Manifesto" è una di quelle: suona forte, sembra importante, ma trascina con sé il ricordo di stagioni dure, di dogmi imposti, di disagi collettivi e di profonda sofferenza. I significanti non si cancellano a comando, e ignorarlo è solo superficialità travestita da creatività. Nel mondo del make-up audiovisivo, dove si formano figure capaci di costruire identità visive complesse, la semiotica non è un'opzione astratta, ma uno strumento essenziale. Ogni dettaglio, ogni colore, ogni linea contribuisce alla costruzione di senso, perché il significato passa attraverso il significante. In questo contesto, non c’è spazio per l’ingenuità o per l’alibi dell’ignoranza: il linguaggio visivo è lettura, è scelta, è responsabilità. E la parola "manifesto" parla, che lo si voglia o no.

A questo punto la domanda è inevitabile: se la parola "manifesto" ancora oggi suona così imperiosa, così carica di significato, non vale forse la pena chiedersi il perché?

Chi maneggia la comunicazione senza questa consapevolezza non innova: svilisce. Non basta sbandierare termini potenti per sembrare nuovi, serve rispetto intellettivo e soprattutto, serve pensare. La comunicazione, soprattutto nel campo della formazione, non può ridursi a un'operazione di facciata: deve riflettere la sostanza e la responsabilità di chi forma le nuove generazioni. Per questo, scegliere con cura le parole è un atto non solo di stile, ma di rispetto profondo.

A chi crede che il rifiuto di sdoganare certi termini sia una forma di chiusura mentale o di arretratezza, è necessario rispondere con fermezza: non è affatto così. La scelta di non utilizzare parole cariche di storia, tensione o ambiguità non nasce da un atteggiamento conservatore, ma da un atto di consapevolezza e scrupolo. In questi casi, non esistono giustificazioni retoriche che possano legittimare l'uso superficiale del linguaggio.

Giustificare la leggerezza con l'onestà intellettuale è un errore grave: l'onestà intellettuale autentica non permette scorciatoie né indulgenze verso la banalizzazione del significato. Al contrario, pretende rigore, attenzione e rispetto per il potere che ogni parola esercita nella mente di chi ascolta o legge.


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