Ricominciare
- carlabelloni

- 24 mar
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 9 lug

Scrivere di sé, in certi momenti, non è un bisogno di attenzione né un atto di coraggio, è semplicemente un modo per rimettere ordine dentro.
Non tutto ciò che attraversiamo ci definisce, ma alcune esperienze lasciano il segno.
Ci spostano, ci fanno perdere il baricentro e spesso, prima di ritrovarlo, bisogna accettare di stare un po’ in disequilibrio.
Ci sono passaggi che non si raccontano facilmente, non perché manchino le parole, ma perché si ha la sensazione che verranno fraintesi, ridotti, incasellati.
Viviamo in una cultura veloce nel giudizio e lenta nell’ascolto.
Esporre un momento difficile, per alcuni, equivale a esporsi troppo, come se il dolore o la fragilità dicessero tutto di noi.
In realtà sono solo parentesi.
A volte necessarie.
Non dicono chi siamo, ma cosa abbiamo attraversato.
Scrivere non significa sempre spiegare, giustificare o cercare approvazione è piuttosto, una riflessione a voce alta, rivolta a chi si è sentito escluso, a chi ha imparato a ricominciare senza fare rumore, trovando nel silenzio la propria forza.
Ogni interruzione può diventare anche un nuovo inizio, se la si osserva senza il peso del giudizio.
Dopo mesi di rielaborazione, di riscritture e aggiustamenti di questo articolo, ho compreso che raccontare nel dettaglio ciò che ho vissuto in questi due anni rischia di trasformarsi in qualcosa di diverso da ciò che intendevo: una cronaca involontariamente esibita, pastura per i cinici.
Non tutto va spiegato.
Alcune cose è meglio lasciarle dove stanno: nei gesti non detti, nei silenzi pieni, nelle scelte compiute senza rumore.
Ma qualcosa può e deve essere detto, per onestà verso me stessa e verso chi, forse, si è trovato a vivere un passaggio simile.
Ci sono momenti in cui un sistema, per quanto familiare, smette di somigliare a ciò in cui si crede.
Si avverte una deriva lenta, fatta di segnali discreti ma costanti.
Un progressivo allontanamento dai valori fondanti, dalla qualità, dalla coerenza. Si resta in bilico per un po’, cercando di adattarsi, di resistere. Fino a quando diventa chiaro che adeguarsi significherebbe tradire la propria idea di lavoro. A quel punto, si sceglie. Non per orgoglio, ma per necessità.
Chi lascia non sempre ha pianificato una fuga. A volte ha solo smesso di accettare compromessi.
È stato un passaggio faticoso.
Lasciare un luogo che si è amato profondamente può far male come un’amputazione.
Quando ci si mette tanto di sé in ciò che si fa, ogni frattura lascia un’eco che risuona a lungo.
Il corpo parla: lo fa con stanchezze improvvise, con sintomi inspiegabili, con richieste di ascolto che non si possono più ignorare.
Poi, lentamente, si impara a rimettere insieme i pezzi.
Nel silenzio, nella natura, nei gesti semplici. Si studia, si osserva, si ricostruisce. Si riscopre il piacere di progettare, di creare, di apprendere. Ma lo si fa da un altro luogo interiore, più essenziale.
In quel tempo, ho scritto articoli per questo blog: alcuni erano semplici sfoghi, nati in giornate complesse, dense di emozioni contrastanti, in cui la rabbia cercava spazio tra le righe. Pagine che urlano in silenzio, e che forse resteranno nell’ombra per sempre. Altri, più informativi, legati al mondo del make-up e della formazione.
Scrivere, in entrambi i casi, è stato un modo per rimettere ordine. Per capire dove mi trovavo, e cosa stavo portando con me.
Ciò che ha fatto più male non è stato perdere il lavoro, ma dover prendere atto che alcuni legami erano meno autentici di quanto sembrassero. Quando tutto si spegne senza spiegazioni, senza parole, si resta immobili a interrogarsi sul senso di quelle assenze. Poi si capisce che certe presenze durano solo finché si è funzionali e che l’amicizia, quella vera, non si misura nel tempo trascorso insieme, ma nella capacità di esserci quando non si ha più nulla da guadagnare.
Ho faticato a riconoscere quelle persone, i loro gesti, i loro silenzi.
Ancora oggi, a tratti, mi sembra irreale.
Come se quel mondo avesse indossato un volto che fino alla mia uscita aveva saputo nascondere.
Nel frattempo, la mente non si è mai fermata. Si è mossa nella scrittura, nella formazione, nell’organizzazione di un nuovo sistema. Nel desiderio di restituire senso a ciò che si sa, a ciò che si è appreso. Anche il corpo, lentamente, ha ritrovato equilibrio. Ci è voluto tempo per abitare di nuovo la quotidianità, per sentire di appartenere a uno spazio, per riconoscersi nei gesti del presente.
A distanza di tempo, resta la consapevolezza che la professionalità non è mai disgiunta dall’umanità. Separarle è un’operazione comoda per chi esercita potere senza volersi assumere responsabilità.
Ciò che delude non è l’errore, ma la disumanità mascherata da efficienza.
Il silenzio costruito, le esclusioni implicite, i riconoscimenti negati.
Ma anche questo insegna.
Insegna a riconoscere ciò che non si vuole più.
A dare valore alla trasparenza, al confronto autentico, alla coerenza tra parole e scelte.
Ricominciare, oggi, significa questo: non dimenticare ciò che è accaduto, ma non restarci imprigionata. Portare con sé il buono costruito, le competenze affinate, la visione maturata. Con più lucidità e più direzione.
Riparto da me, con rispetto per il percorso fatto e senza più il timore di non essere capita.
Chi vuol capire, capirà. Il resto, non è più affar mio.
Di questa esperienza porto con me ciò che ho imparato, tutto il valore che ho costruito e voglio metterlo al servizio di qualcosa che mi somiglia davvero.
Con più consapevolezza, meno bisogno a ciò che non mi appartiene e il desiderio, finalmente, di costruire qualcosa che porti il mio nome e il mio senso.
Ricominciare, per me, significa restare fedele a ciò che sono diventata.
È accogliere il presente con cognizione, lasciando che le esperienze passate guidino le scelte future. Riparto da me, con rispetto per il mio percorso e fiducia nelle capacità che oggi posso mettere a disposizione.
Senza clamore, ma con fermezza.


