“Mentre il mondo balla”. Riflessioni intorno a un mestiere che si sta dimenticando di parlare sottovoce
- carlabelloni

- 12 mag
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 10 lug

C’è una bellezza che ha sempre parlato a bassa voce.
Abita nei gesti misurati di chi prepara un volto per la scena, nella pazienza delle mani che non cercano l’effetto, ma la coerenza. Nei corridoi silenziosi dei camerini, dove il trucco non è mai solo trucco: è traduzione, interpretazione, ascolto. È quel momento sospeso in cui la materia diventa narrazione.
Nel mondo dell’audiovisivo, del cinema, del teatro, questa dimensione esiste ancora. È lì che molti truccatori e truccatrici continuano a lavorare in modo invisibile, ma essenziale. Anno dopo anno, si aggiornano, evolvono, senza bisogno di proclami. Il loro lavoro non cerca l’occhio dello spettatore, ma accompagna la costruzione di uno sguardo più ampio: quello dell’opera.
Eppure, intorno e ormai anche dentro, qualcosa sta cambiando.
Sui social, il make-up si è trasformato in linguaggio di intrattenimento. Tutto si muove, tutto si mostra, tutto si semplifica. Il trucco non è più solo un sapere tecnico o una forma artigianale, ma un pretesto per mettere in scena sé stessi. E ciò che colpisce non è tanto la spettacolarizzazione in sé, quanto il fatto che anche chi lavora da anni in modo serio e strutturato, anche chi ha costruito la propria professionalità su competenze solide, si senta costretto ad aderire a questo stile comunicativo.
Video in cui si balla mentre si stende un fondotinta, sketch comici durante una sfumatura, pose, sorrisi, siparietti. Truccatori che si improvvisano performer, come se fosse diventato necessario essere intrattenitori prima ancora che professionisti.
Come se il gesto tecnico, da solo, non bastasse più.
Anche i negozi specializzati, un tempo spazi dedicati alla consulenza, allo studio, all’incontro tra chi lavora con la materia, si trasformano in palcoscenici. Giornate evento con DJ, musica ad alto volume, personale che balla tra gli espositori. L’obiettivo è attirare chi passa, coinvolgere chi guarda, far vivere un’esperienza. Ma in questa atmosfera accelerata e seduttiva, il pensiero si affievolisce. Si cerca l’effetto, non il contenuto.
E questa estetica dell'intrattenimento arriva ovunque, anche dove meno te l’aspetti.
Dentro le accademie. Dentro luoghi nati per formare, per trasmettere un sapere, per costruire professionisti. Anche lì si moltiplicano i contenuti pensati per “mostrare un clima”: docenti, manager, direttori, operatori aziendali che si prestano a reel sorridenti, coreografie improvvisate, scene leggere da diffondere. L’idea è raccontare che si lavora con allegria, che c’è armonia, che l’impegno professionale è vissuto con leggerezza. Tutto sembra voler dire: “Siamo seri, ma sappiamo anche divertirci.” Ed è qui che la riflessione si fa più delicata. Perché non si tratta di criticare l’atmosfera positiva, ma di notare quanto spesso quella spinta alla leggerezza diventi una maschera. Un messaggio costruito per aderire a un’estetica dominante, anche quando la realtà è ben più complessa, faticosa, piena di sfide e di momenti in cui, più che ballare, si avrebbe bisogno di pensare.
E qualcosa di simile accade persino nei backstage delle realtà minori, quelle legate a piccole produzioni teatrali o cinematografiche. Dove mancano linee guida strutturate, dove l’organizzazione è più fluida, lo spazio per l’improvvisazione si allarga. E così, tra una preparazione e l’altra, appaiono reel improvvisati, balletti, siparietti ironici. Non c’è malizia, forse. Ma c’è un’abitudine che si insinua: quella di dover sempre “esserci”, in modo visibile, leggero, accessibile.
Eppure, chi ha vissuto un vero backstage, anche in contesti meno istituzionali, sa quanto quel momento prima della scena sia prezioso. C’è una ritualità fatta di silenzi, sguardi, tempi rispettati. Un’etica non scritta che protegge l’attore, il personaggio, la concentrazione. Interrompere quel momento per un contenuto da postare è più di un’intrusione: è una dimenticanza. Ci si dimentica del valore di ciò che si sta facendo.
Questo non è un rifiuto del presente, né una condanna della leggerezza. Ma una domanda sì: perché anche il mestiere più silenzioso, più attento, deve diventare spettacolo? Perché oggi sembra che tutto debba passare da un linguaggio che semplifica, intrattiene, diverte?
Forse perché temiamo che, se non balliamo anche noi, nessuno ci vedrà più.
Ma forse è proprio restando fermi nel proprio sapere, nella propria coerenza che si riesce ancora a parlare davvero.
Anche sottovoce.


