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L’inclusività strumentalizzata: quando le accademie di make-up e gli influencer cavalcano un falso mito

  • Immagine del redattore: carlabelloni
    carlabelloni
  • 27 mar
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 9 mag


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Negli ultimi anni, il termine inclusività è diventato un mantra per accademie di make-up e influencer. Spesso dalle accademie è usato per promuovere corsi “specializzati” in trucco per pelli scure. Un’iniziativa che, a prima vista, sembra progressista e necessaria, ma che, analizzata a fondo, svela una realtà più complessa e talvolta ingannevole.  

La tecnica e la conoscenza del make-up non cambia in base al colore della pelle. Un corso ben strutturato e professionale insegna a lavorare su tutte le tipologie di carnagione, poiché l’unica vera variabile è la conoscenza delle caratteristiche epidermiche specifiche. Ad esempio, le pelli scure tendono a essere più soggette a iperpigmentazione o ad una elevata secrezione sebacea e quindi necessitano di una gestione nella scelta della tipologia del cosmetico da utilizzare. Questa cosa avviene anche quando si trucca un soggetto con pelle chiara con le stesse caratteristiche di pelle. Tuttavia, queste informazioni dovrebbero essere incluse in qualsiasi corso di trucco di qualità, senza bisogno di creare sezioni “speciali” che spesso risultano solo operazioni di marketing.  


Il “Problema” delle Nuance di Fondotinta  

È vero che in Italia spesso manca la disponibilità di cosmetici adatti alle carnagioni più scure, soprattutto per quanto riguarda i fondotinta ei correttori. Tuttavia, questo non deriva da razzismo o discriminazione, ma da logiche di mercato. Di fronte al profitto, anche il razzismo fa un passo indietro. La produzione di nuance specifiche richiede un investimento che, in contesti con una bassa domanda, le piccole e medie aziende non ritengono economicamente sostenibile. Questo accade in molti settori e non è necessariamente legato a intenti discriminatori.  Gestire un magazzino con una vasta gamma di nuance cosmetiche a bassa rotazione può essere insostenibile per piccole realtà commerciali, a causa dei costi elevati e delle difficoltà di stoccaggio. Al contrario, le grandi distribuzioni monomarca internazionali, come MAC Cosmetics, riescono a offrire un assortimento completo che spazia dai toni più chiari, come l’alabastro, ai più scuri, come il marrone intenso. Queste aziende, grazie alla loro struttura e al loro prestigio, possono garantire una disponibilità costante di tutte le tonalità, rendendo più semplice soddisfare le esigenze di ogni cliente. Il problema, quindi, è principalmente di natura economica, legato alla domanda e all'offerta. Non si tratta di una questione di inclusività, ma di scelte basate su guadagni e sostenibilità economica. È importante confrontarsi con la realtà del mercato attuale, dove le decisioni vengono spesso dettate da logiche economiche piuttosto che da ideali.

Agli influencer che criticano i brand per la scarsa inclusività nella produzione di cosmetici, viene spontaneo chiedersi: vi siete informate se questa problematica riguarda solo l’Italia? Come già spiegato, nel nostro paese la richiesta di mercato per alcune nuance è ancora limitata, rendendo economicamente insostenibile uno stoccaggio ampio. Ad esempio, marchi come L'Oréal, presenti nella grande distribuzione franchising, offrono in Italia una gamma di nuance più ristretta. Tuttavia, andando a New York, Londra o Parigi si trovano molte più tonalità, comprese quelle più scure, nei grandi magazzini.

Quindi, chi si vuole colpevolizzare? I magazzini italiani, che per ragioni di domanda ridotta non investono in uno stoccaggio più ampio, o le aziende produttrici? La questione non è solo di inclusività, ma è intrecciata con complessi meccanismi economici. Pensiamoci un attimo: anche le case farmaceutiche, quando si tratta di malattie rare che colpiscono poche persone, spesso scelgono di non investire nella ricerca e nella produzione di farmaci, perché non è economicamente conveniente. Se questo succede anche in situazioni così drammatiche, ha davvero senso stupirsi se in certi negozi non troviamo fondotinta scuri solo perché la richiesta in quella zona è bassa e ci sarebbero problemi di stoccaggio? Occorre considerare il contesto economico prima di esprimere giudizi affrettati. Nel momento in cui un tema genera like e interazioni, sembra che tutti siano pronti a cavalcare il tema dell’inclusività. Tuttavia, spesso assisto a una spettacolarizzazione di argomenti seri e importanti, trasformati in strumenti per ottenere un ritorno personale che trovo profondamente inquietante.


L’Inclusività Sfruttata come Marketing  

La narrazione di accademie che promuovono corsi “per truccare la pelle scura” non fa che strumentalizzare un problema sociale grave come il razzismo. L’inclusività viene sventolata come una bandiera per giustificare corsi che, in realtà, non aggiungono nulla di nuovo alla formazione di un truccatore competente. Se c’è bisogno di corsi specifici, significa che i programmi generali proposti sono mediocri e non sufficientemente approfonditi.  

La questione è tanto seria quanto grottesca. Se seguissimo questa logica, dovremmo forse proporre corsi specifici per truccare la Fata Turchina? Un’idea che fa sorridere, ma che evidenzia il paradosso di questa narrazione. Un professionista formato adeguatamente non avrebbe alcun problema a truccare qualsiasi tipologia di pelle, indipendentemente dal colore, in questo caso anche una deliziosa pelle color turchino.


Cavalcare l’onda non è necessario

Cavalcare l’onda dell’inclusività a tutti i costi, anche quando non c’è una vera necessità, non solo svilisce il valore della formazione professionale, ma banalizza un problema sociale reale. Il razzismo esiste e va combattuto, ma non in questo contesto. Strumentalizzare l’inclusività per fini commerciali è un’occasione persa per promuovere un’autentica educazione e consapevolezza.  

L’inclusività non si proclama: si pratica, e si pratica attraverso un’educazione completa, onesta e priva di artifici.


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